venerdì 26 ottobre 2018
Al Museo d'Orsay la più grande retrospettiva mai organizzata sui due primi periodi del pittore. La ricerca della propria cifra espressiva e l'occhio da cleptomane sulle opere altrui
Picasso, «La Vie» (1903, particolare)

Picasso, «La Vie» (1903, particolare)

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Si è aperta al Museo d’Orsay di Parigi da qualche settimana la più grande mostra mai allestita sui periodi blu e rosa di Picasso. I cinque curatori della mostra – C. Bernardi, R. Bouvier, L. Le Bon, S. Molins e É. Philippot – nella premessa in catalogo mettono subito le mani avanti: «Bisogna guardarsi dalla tentazione di ridurre i periodi blu e rosa a una protostoria dell’epopea picassiana». È vero che il primo a rifiutare una concezione evolutiva della sua opera era Picasso. Quindi non chiamiamo evoluzione ciò che viene dopo, ma senza negare che in quei due periodi Picasso cerca di capire ciò che può diventare e ciò che precede il Cubismo finisce nella scabra essenzialità plastica nel periodo rosa che lo riporta agli affreschi calcinati dal sole e alla plasticità di certa scultura della sua terra, la Spagna, con le ombre che solidificano e portano in avanti le figure. Partiamo da più indietro, ma affidandoci a una sua celebre massima: «non cerco, trovo». E quel che trova, se può, lo ruba e poi lo trasforma con la propria energia plastica. La madre lo svezza così: «Se diventerai soldato, tu sarai generale; se sarai monaco, tu diventerai Papa». E lui: «Volevo essere pittore e sono diventato Picasso». Non a caso, il cognome-nome che lo identifica oggi è quello materno. Pablo Ruiz (così ancora si firma da giovane), nato nel 1881 a Malaga, comune di commerci marittimi ma anche di precoce industrializzazione, era figlio di un pittore non molto dotato mentre la madre aveva origini genovesi e proveniva da una famiglia ramificata in Argentina. Gli inizi sono legati alle immagini potenti degli affreschi romanici catalani, ma anche Velázquez e Zurbarán, la scultura medioevale e barocca, Goya e i postumi del realismo spagnolo, l’eco degli impressionisti. Picasso è uno stomaco che accoglie tutto e tutto macina dentro di sé.

L’arrivo a Parigi risale al 1900, Picasso si guarda intorno e ancora assorbe tutti gli umori della Ville Lumière che si affaccia al nuovo secolo con una febbricitante voglia di vivere ma già coi sentori, malinconici, di ciò che volge alla fine. Il romanticismo sopravvive nel simbolismo dell’epoca con le sue atmosfere spiritualiste e surreali; i vapori del Ballo Excelsior – luce, progresso e civiltà – s’infrangeranno di lì a pochi anni nel grande cataclisma bellico. Lo spirito del ca- baret che aveva animato Montmartre, il circo, la goliardia di artisti e poeti dediti alla blaguee alla satira del mondo borghese: tutto finirà inghiottito nell’abisso della Grande Guerra, di cui quest’anno si chiude il lungo, pluriennale centenario; e la mia impressione è che se ne sia parlato molto, ma soprattutto in modo celebrativo e poco profondo nell’illuminare le ragioni per cui la Grande Guerra è la madre sadica e terribile del Novecento, che da secolo breve trova una cronologia centenaria fino a noi. La Grande Guerra ci riguarda, eccome. L’epoca dei fumisti e dei “balli incoerenti” però si stava già chiudendo quando Picasso approdò a Parigi; ma il suo senso di cleptomane lo guida con rapace e lucida volontà di appropriazione di ciò che muore.

Oggi guardiamo le opere precedenti il periodo blu e avvertiamo gli enormi debiti di ispirazione che Picasso ha spudoratamente esibito: Van Gogh, Redon, Toulouse-Lautrec, Degas... E anche quando nel 1902 abbraccia per quasi due anni il blu come dominante dei suoi quadri, in realtà non aggiunge un segno veramente nuovo: certo, dimostra il suo talento per la for- ma, una notevole tecnica e una immaginazione che però deve sempre ancorarsi a qualcosa di già esistente. Quando nella celebre poesia delle vocali Rimbaud associa la “O” al blu, ha già detto molto di ciò che questo colore ha rappresentato per la pittura simbolista. La O «suprema Tromba piena di strani stridori», da cui discende «il raggio viola negli occhi»: la morte che chiude il cerchio della totalità (di un’epoca esaltante). Soltanto perché questa fase “malinconica” finde- siècle ancora è poco studiata, si può vedere nel Picasso blu l’inventore di qualcosa che non sia l’eccedenza dell’uso, l’utilizzo di un colore per dimostrare di essere capace di dipingere quasi in monocromo surclassando chiunque. Picasso è malinconico, e l’azzurro cupo è la sua bile astrale.

Come ha scritto Pastoureau, il blu è tipicamente francese, nel tricolore scelto dai rivoluzionari è il colore vicino all’asta, il più visibile quando la bandiera è a riposo. Picasso si sta naturalizzando col colore e mette le premessa della sua cittadinanza futura. Ma il blu, colore molto amato dall’uomo del XX secolo (oggi meno) a lungo ha suscitato diffidenza (fin dall’antichità). Poi, nel Medioevo, ha dato il manto alla Vergine. Nella modernità, diventa un colore emblematico del Romanticismo: «Il blu è un’oscurità indebolita dalla luce » scrive Goethe nella Teoria dei colori; l’oscurità attenuata e popolata di fantasmi più o meno psichici fu un tema del sublime. Osservando le decine di opere blu di Picasso esposte si avverte una pressione soffocante. C’è l’asfissia delle esalazioni funebri. Dove “rubò” l’idea di poter dipingere lungamente e in prevalenza col blu? È chiaro che niente nasce dal niente e se volessimo citare il Notturno in blu di Whistler nella serie sul Tamigi (1872-’75), più ancora e più vicino a Picasso fresco di approdo a Parigi, dobbiamo ricordare il pittore belga simbolista William Degouve de Nuncques che tra il 1895 e il 1897 aveva prodotto una serie di dipinti blu, notturni a Bruxelles o a Venezia, stagni e boschi avvolti nell’oscurità, e così anche il pittore simbolista francese Alphonse Osbert che aveva dipinto paesaggi o scene religiose in blu ( La solitudine di Cristodel 1897, per esempio). Naturalmente, non si possono dimenticare i cieli notturni e stellati di Van Gogh, gli sfondi di figure nel tardo Redon e così via.

Picasso, sensibile a tutto ciò che si distacca dal linguaggio convenzionale, si mette all’opera con la sua indole di spagnolo ruvido e guascone, e poco alla volta riduce la sua tavolozza al blu: Femme à la toilettee l’Autoritratto del 1901, che sembra un’icona russa moderna; tutto comincia ad andare a registro nel 1902 con Femme assise au fichu, Buveuse assopie, Les deux Soeurs, ma il blu copre anche interi scorci dei quartieri di Barcellona. E nel 1903 esplode inLa Soupe, Femme sur son lit de morte, Les Pauvres au bord de la mer e La vie, che risentono della pittura a fregio, oltre a vari ritratti tra cui quello pre-espressionista di Fernández de Soto. Poco alla volta Picasso riporta l’ago della bussola verso la Spagna, come nelle figure del Vecchio chitarrista, dell’Ascetae del Vecchio ebreo, con una maniera che sembra voler unire l’arcaico e il realismo magico ante litteram.

È in questi scarti linguistici che si avverte la promessa del genio; come nell’impressionante Célestine dall’occhio offeso, che anticipa le anamorfosi del volto che Picasso produrrà dopo il Cubismo. Il ritorno al colore propriamente inteso ancora non c’è, ma dal 1903 in poi si osserva il lento riapparire della tavolozza, per esempio nel grande quadro della Famiglia Soler, dove il blu è ancora molto esteso ma meno dominante. Nella Donna col casco di capelli del 1904 il blu si stempera, prende riflessi quasi argentei, mentre nella Stiratrice si spegne nel grigio. Ma è nella fase degli arlecchini e degli acrobati e saltimbanchi del 1905, anticipo di un nuovo periodo “monocromo”, quello rosa, che il simbolismo del blu si dissolve per far fiorire sotto di sé un nuovo colore, la forma e la pittura che ancora una volta riportano Picasso alla sua terra: modulazioni del rosso, carne della Spagna. La forma, come anche nel primitivismo del periodo blu, si esprime quasi a fregio, ma in realtà gioca a far uscire la terza dimensione da un fondo decorativo, che può essere neutro ( L’atleta e lo strepitoso Ragazzo con un cane del 1905) oppure elaborato, ma con l’unica funzione di far risaltare la figura (il Ragazzo con la pipa del 1905). Il 1906 è l’anno dei dipinti di Gosol, con le tele dei Due fratelli che nella monocromia del rosa-terra escono in primo piano come vere e proprie sculture incarnate: inclinazione che Picasso renderà sempre più evidente elaborando una scultura straordinariamente nuova. L’arcaismo del feticcio e la bellezza della decorazione. Ma giunti a questo punto Picasso non è ancora Picasso. Il suo metabolismo deve darsi una regola. E a farne le spese subito dopo saranno le culture extraeuropee. La cena del cannibale non è mai finita.

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