sabato 19 settembre 2015
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«Il primo campetto in cui ho giocato da bambino era in “salita”, davanti alla scuola di Ashton-under-Lyne...». È lì, nella contea della Grande Manchester che è iniziata la scalata alle vette del calcio internazionale di Simone Perrotta. Il centrocampista della Nazionale campione del mondo del 2006, a 38 anni «appena compiuti», è con Damiano Tommasi (presidente dell’Assocalciatori e suo ex compagno nella Roma) il “sindacalista” del pallone più attivo e socialmente impegnato. Consigliere federale in quota Aic, è un piccolo eroe esemplare del football. Basti pensare che al ragazzo di Calabria («In Germania nel 2006 eravamo tre calabresi: io, Gattuso e Iaquinta») lassù nella lontana Ashton hanno dedicato persino un monumento.«Non sapevo neanche che ci fosse quella statua, ci avvertì uno zio. Mio padre a 18 anni è partito da Cerisano (Cosenza) senza una lira in tasca e lavorando dalla mattina alla sera alla fine era diventato gestore di un pub dove scorrevano fiumi di birra... Ma in Inghilterra per noi italiani era dura. Razzismo? No, la definirei “discriminazione territoriale”. Così papà, per evitare che io e i miei fratelli restassimo lontani dagli affetti e dal calore della nostra terra, ci ha riportati in Italia».Cresciuto nella squadra del paese, approdò nelle giovanili della Reggina che lo fece debuttare in serie B, contro il Chievo. «La squadra del mio destino. Dopo esser passato da Bari, al Chievo arrivai in pratica da “scaricato” dalla Juventus. Ricordi bianconeri? La pressione di un ambiente in cui sei “condannato” al successo. Il pareggio, ieri come oggi, è visto come una sconfitta e il motto che ti inculcano è da sempre quello bonipertiano: “Vincere non è importante, è l’unica cosa che conta”». Perrotta quello spirito vincente lo trasferì subito nel Chievo di Gigi Del Neri. «Senza retorica, quella del Chievo è una grande favola che continua ad essere riscritta. Al primo anno in Serie A – 2001-2002 – fino a Natale restammo clamorosamente al comando della classifica. Vincendo 2-1 a San Siro, scavalcammo dal secondo al primo posto l’Inter di Ronaldo...». Corsi e ricorsi storici: domani al Bentegodi si gioca Chievo-Inter, match che, incredibilmente, vale ancora il primato. «Sarebbe bello se prima o poi una piccola come il Chievo riuscisse a cucirsi lo scudetto al petto, ma allo stato delle cose più che di impresa parlerei di “miracolo”. Da noi vige una spartizione iniqua delle risorse. Le “grandi sorelle” - Juve, Inter, Milan ecc. -  hanno a disposizione budget tre-quattro volte superiori alle piccole, le quali tutto quello che possono fare è lavorare sui giovani o avere la fortuna di rilanciare dei giocatori “incompresi” dai grandi club, un po’ come è stato il mio caso». E sull’argomento giovani viene fuori l’ex campione d’Europa Under 21 (nel 2000), ma soprattutto lo spirito combattivo del sindacalista Aic.«Non è mica colpa dei tanti stranieri se il nostro calcio vive un momento di profonda crisi. Il problema è che il sistema così com’è tiene ancora ragazzi di vent’anni ostaggio delle squadre “Primavera”. E quelli che finiscono in prestito in Lega Pro non tornano più alla casa madre. Così, la maggior parte in poco tempo si perde nel dilettantismo o abbandona. Perciò l’unica riforma possibile è istituire campionati composti da “Squadre B”, sul modello spagnolo. Questo creerebbe un nuovo mercato più ampio e soprattutto consentirebbe una maggiore valorizzazione dei talenti. Specie quelli che crescono nei vivai virtuosi di Empoli, Atalanta, Frosinone, ma anche di Inter e Roma, che sono tra le poche grandi che non hanno mai smesso di investire e di credere nei giovani».Il capitolo Roma per Perrotta vuol dire un decennio (2004-2013) al fianco del re e del viceré giallorosso, Francesco Totti e Daniele De Rossi, alla conquista di uno scudetto fatalmente perduto, più volte. «Purtroppo abbiamo stabilito il triste record degli eterni secondi [dal 2004 sei volte secondo posto, quattro con Perrotta in giallorosso, ndr]. Eravamo come Toto Cutugno al Festival di Sanremo – sorride –. Però, specie con Spalletti, la Roma ha mostrato il calcio più bello e divertente. E molti di quei movimenti e dei meccanismi di gioco di noi romanisti sono stati utili anche alla Nazionale di Lippi nel 2006». Quell’anno mondiale segna anche l’inizio della prima Calciopoli, fenomeno scandaloso che da noi sembra ormai irreversibile. «I calciatori cadono sempre più nella rete delle scommesse, specie da quando si sono ritrovati nello status di “operai” privilegiati. Con la differenza che l’operaio a fine mese prende lo stipendio, mentre nel calcio le società spesso pagano con 3-4 mesi di ritardo, e parecchie, anche prestigiose, falliscono (vedi il “caso Parma”) a campionato in corso, così i tesserati non vedranno mai neanche un euro. Come se ne esce? Il calciatore fin da giovane deve capire che nel professionismo non c’è spazio per tutti, perciò devono pensare al domani e a come ricollocarsi a fine carriera nel mondo del lavoro. Noi come Aic proviamo a seguirli e a indirizzarli con dei corsi di formazione nei quali spieghiamo che un uomo di sport può tornare molto utile alle aziende. E di questo gli imprenditori ne sono consapevoli». Il calcio sì sa, è una delle maggiori industrie nazionali, ma ciò che importa a Perrotta è esportare quel «Pil (Prodotto interno lordo) fatto di conoscenze e di solidarietà concreta nei confronti di popoli lontani, come quello del Congo che ho appena visitato. Non possiamo continuare ad essere indifferenti a chi vive nel degrado e nella miseria. Il calcio può far molto, regalare scampoli di felicità e sorrisi ai bambini, ma a me piacerebbe tornare in Africa non per disputare la solita partita simbolica, ma per costruire, con l’aiuto di Qualcuno più in alto di noi, qualcosa di importante e che resti per questa gente che ci chiede aiuto». È il pensiero forte di chi, come Tommasi, potrebbe essere il presidente ideale della Federcalcio. Ma quando sarà il tempo di un calciatore al vertice del Palazzo del pallone italiano? «Mai, fino a quando la componente tecnica (Aic, Aia e Aiac) resterà minoranza costretta a giocare in difesa e all’opposizione. Noi vorremmo “combattere” alla pari nel rispetto e la tutela dei diritti di tutta la categoria, ma questo oggi non è possibile perché siamo governati da chi crede che il nostro calcio, specchio del Paese, sia ancora il migliore del mondo. Io invece più viaggio e più mi convinco che l’Italia è forse il posto più bello del mondo, ma non è più quello dove si lavora e si vive meglio».
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