mercoledì 29 marzo 2017
Curiosità e pregiudizi intorno alla prima “mister” azzurra. «Il sessismo fa male, ma l’Italia è stanca di banali luoghi comuni I ragazzi dell’Under 16 con me sono fantastici»
Patrizia Panico, assistente tecnico del ct Zoratto, Under 16 maschile. «Il calcio femminile è sicuramente un modello di fairplaiy da seguire».

Patrizia Panico, assistente tecnico del ct Zoratto, Under 16 maschile. «Il calcio femminile è sicuramente un modello di fairplaiy da seguire».

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Nella storia del calcio azzurro femminile tre sono i pilastri: Elisabetta Vignotto, Carolina Morace e Patrizia Panico. In tre, con la maglia della Nazionale, hanno messo a segno 314 gol, ma la regina delle bomber resterà, e ancora a lungo, Patrizia Panico. Ha battuto tutti i record la “cecchina” romana, classe 1975. Nella sua bacheca personale si trovano 10 scudetti, 5 Coppe Italia, otto Supercoppe italiane. E dalla Lazio, suo primo club «e anche primo amore con cui debuttai in A nel 1993» fino all’ultima stagione (2015-2016) alla Fiorentina Women’s, ha messo assieme 549 presenze nella massima serie e segnato 618 gol. Se la Morace è stata la prima donna a sedersi sulla panchina di una formazione maschile (allenò la Viterbese del vulcanico Luciano Gaucci che la esonerò dopo due partite nella C1 1998-1999), la Panico si è spinta ancora più in là, arrivando a guidare per due gare amichevoli la Nazionale Under 16 del sacchiano Daniele Zoratto (impegnato nell’Europeo Under 19, come vice del ct Roberto Baronio). Due match storici contro i pari età della Germania, bilancio di questo debutto assoluto di una “donna-ct” su un panchina azzurra: una sconfitta e una vittoria. «Ed è stata la prima vittoria dell’Under 16 contro i tedeschi», sottolinea orgogliosa la guerriera di Tor Bella Monaca.

Un esordio salutato con curiosità, ma anche dai classici pregiudizi e da commentini salaci (“una donna non può mica allenare una squadra maschile”). Uno in particolare, in diretta tv alla Domenica Sportiva( Rai 2) a voce di Ivan Zazzaroni, che poi, fuori onda, si è scusato...

«Le sue scuse le trovo prive di contenuti, così come le sue affermazioni. L’Italia è stanca di certi luoghi comuni e l’ho capito in questi giorni in cui ho ricevuto centinaia di testimonianze di stima e di affetto, specialmente dagli uomini. Anche dai calciatori, e tutti hanno rimandato al mittente quelle considerazioni stupide e ormai superate. Il tasso di sessismo per fortuna si è decisamente abbassato in questo Paese».

Merito anche di un movimento, quello del calcio femminile, che sta facendo grossi passi in avanti anche sotto l’aspetto culturale.

«Quando ero una ragazzina, molti genitori reagivano malissimo se la figlia sceglieva il calcio come sport. Qualche papà e mamma la prende ancora male, ma lo “scetticismo terroristico” è sulla via della sconfitta definitiva. I miei come la presero? Nessuno ostacolo da parte loro, né nei miei confronti, né riguardo a mia sorella maggiore, Sabrina. Al tempo io e lei eravamo due “marziane”, giocavamo per le strade del quartiere come maschiacci, mischiandoci ovviamente a squadre di soli ragazzini».

La prima squadra femminile in cui ha giocato?

«Il Borussia, nel Villaggio Breda. Classe operaia, io e Sabrina ci siamo fatte le ossa lì, giocando con ragazze di trent’anni, mentre noi ne avevamo 12 e 14. Mi chiamavano “Bruscolino” perché ero piccola di statura ed esile, ma sognavo di diventare il Bruno Giordano del calcio femminile. Venivo dalla grande scuola della strada di Tor Bella Monaca, perciò non avevo paura di niente e di nessuno e questo mi ha aiutato nel mio lungo percorso di calciatrice ».

Una carriera costellata di record che parla per lei. Però il calcio rosa in Italia non è ancora al livello di altri Paesi europei.

«Il calcio femminile in Italia è “dilettantistico” per statuto, con un tetto salariale di 24mila euro l’anno che è in- feriore a quanto guadagnano le calciatrici in Svezia, Germania, Francia o Inghilterra. Nonostante la passione che le nostre ragazze mettono in campo e che fa di questo sport il loro lavoro, ci troviamo poi a combattere battaglie sindacali per la tutela dei diritti che ci vedono ancora penalizzate sul piano pensionistico, per non parlare della maternità...».

Ci sono molte calciatrici mamme?

«Ci sono eccome, sia nei club che in Nazionale. In passato Daniela Tavalazzi indossò la maglia azzurra quando aveva già partorito, ora lavora nel settore femminile del Bologna».


Il calcio femminile in cosa può competere con il dominante universo pallonaro maschile?

«Sicuramente sul piano squisitamente tecnico; e poi anche nella sfera del fairplay. Le donne giocando un calcio meno veloce accentuano di più il gesto tecnico. Nel calcio femminile non esiste la simulazione e vige il massimo rispetto per le avversarie e soprattutto nei confronti dell’arbitro».

Ci sta dicendo che nelle sfide femminili non si assiste mai a risse in campo né a violenze sugli spalti?

«Non mi risulta che accadano simili episodi, così come nonostante si possa scommettere sulle partite della Nazionale non ci sono mai state storie di combine. Il doping? Io non ricordo casi di positività tra le calciatrici italiane, eppure i controlli si fanno... Non siamo il migliore dei mondi possibili, ma un modello da seguire sì, perché le donne del calcio sanno essere trasparenti e leali».

Ma questi messaggi stanno arrivando alla Federazione e ai presidenti delle società?

«L’obiettivo dichiarato è quello di creare in pochi anni il settore femminile all’interno dei club professionistici maschili e non solo di Serie A. Nel frattempo ci sono nuove società che stanno investendo e bene sulla programmazione e sui settori giovanili. Sono in aumento anche le oriunde in Nazionale, così come nei campionati giocano molte ragazze figlie di stranieri, nate o cresciute in Italia. Un tempo sembrava impensabile, ma oggi si parte dalle squadre esordienti (bambine di 10 anni) e presto si arriverà a formazioni di pulcini e primi calci (5-6 anni)».

Si accalora per il movimento femminile ma intanto è passata al calcio maschile.

«Ma è normale, io amo quel mondo da cui provengo e che mi ha dato tutto. Con gli uomini sto studiando da allenatore, anzi da “mister” come mi chiamano i ragazzi dell’Under 16 che sono stati spettacolari nei miei confronti. Loro sanno che un buon allenatore è buon allenatore a prescindere dal sesso. I nostri giovani, più degli adulti, hanno capito in che direzione sta andando il mondo e sanno che lo sport è un terreno in cui non devono esserci discriminanti, altrimenti le pari opportunità diventano utopia».

In Serie A vedremo prima un arbitro donna o una mister in panchina?

«La strada è ancora in salita, anche per la difficoltà dei ruoli, specie quello dell’arbitro. Una donna direttore di gara è penalizzata dalla fisicità, dalla velocità del calcio maschile, ma possono esserci donne in grado di sopperire a tutto questo e alle quali va data una chance. La Federcalcio ha compreso che ci può essere spazio per un allenatore donna alla guida di una squadra maschile, e allora magari un giorno lo capiranno anche i presidenti dei club professionistici».

Guardando avanti, in che ruolo la vedremo in futuro?

«Spero che l’esperienza con la Nazionale prosegua ancora a lungo. Poi, prima di allenare a tempo pieno in Italia mi piacerebbe andare a “studiare” il calcio in Giappone: per organizzazione e mentalità è un paese molto avanti».

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