
Nick Zonna / fotogramma
Dopo un quarto di secolo Luca Pancalli lascerà la presidenza del Comitato Paralimpico italiano (Cip). Il 26 giugno il sessantunenne avvocato romano proverà a diventare numero uno del Coni.
Presidente, come è maturata la decisione di lasciare il Cip?
«Al termine di una lunga riflessione sul mio futuro, avviata più di un anno fa e basata su una visione strategica di quanto realizzato. Dopo la Paralimpiade di Parigi e i risultati straordinari raccolti dal movimento italiano ho realizzato che la mia esperienza potesse considerarsi conclusa».
È stata una scelta semplice?
«Per nulla, ma sono consapevole che a un certo punto occorre il coraggio di lasciare. Non nego che in questi mesi abbia dovuto elaborare un lutto, perché mi rendevo conto di lasciare qualcosa di familiare che avevo immaginato e contribuito a creare. Avrei potuto continuare, ma ho scelto di tagliare il cordone ombelicale, perché il movimento è forte e può andare avanti senza di me».
Qual è il più grande traguardo raggiunto in questi anni?
«Non ce n’è solo uno, ma tanti, tutti connessi tra di loro e giunti in stagioni diverse. È come se avessi dovuto formare un bambino e accompagnarlo nella sua crescita, dall’infanzia all’adolescenza fino alla maggiore età. In ogni periodo abbiamo raggiunto ciò che ci eravamo prefissati, ma riguardando indietro penso che le pietre miliari siano state il riconoscimento del Cip come ente pubblico, la possibilità per i nostri atleti élite di entrare nei corpi militari dello Stato o nel gruppo sportivo paralimpico della Difesa, il lancio dei bandi per le settimane di avviamento allo sport paralimpico, la collaborazione con i centri di riabilitazione sparsi sul territorio».
Pensa che il mosaico sia stato completato o ci sono ancora pezzi da aggiungere?
«In questi 24 anni ho visto riempirsi dinanzi ai miei occhi un puzzle diventato sempre più complesso e le cui tessere diventavano più difficili da inserire. L’ultimo lavoro che abbiamo sbrigato è stato avviare il percorso di realizzazione del secondo stralcio del centro di preparazione paralimpica al Tre Fontane, che comprenderà tre l’altro la foresteria e il reparto di protesizzazione. La base è stata fatta, chi verrà dopo di me dovrà solo portarlo avanti».
Il suo è stato un lavoro evolutivo, in cui il Cip da una piccola federazione in seno al Coni ha assunto una veste organizzativa propria ed è diventato un ente studiato anche all’estero. Quali pensa siano gli elementi base del modello italiano?
«La struttura funziona e sta in equilibrio quando le quattro gambe del tavolo hanno la medesima importanza. Mi riferisco ai risultati dell’alto livello, all’aumento del numero di praticanti, alla distribuzione omogenea della pratica sul territorio e al miglioramento dell’accessibilità delle infrastrutture».
Senza le medaglie con i tre agitos il circolo virtuoso si sarebbe innestato?
«No, perché sono stati i grandi atleti a trainare tutto. La tensione generata grazie alle medaglie ha fatto prendere coscienza della nostra esistenza nelle scuole, negli enti locali, nel mondo della comunicazione. Se la Rai ha deciso di trasmettere le Paralimpiadi di Parigi sul secondo canale non è stata una folgorazione sulla via di Damasco, bensì un percorso trascinante e continuativo».
I praticanti sono cresciuti?
«Le dò un solo riferimento: la lunghezza delle liste di attesa alle settimane di avviamento. Le famiglie hanno preso consapevolezza del fenomeno e da lì la crescita è stata traboccante».
Sul fronte delle infrastrutture accessibili a che punto siamo?
«Anche qui le rispondo con un esempio, ossia l’aumento vertiginoso delle richieste pervenuteci dai comuni per affiancarli nel processo volto a rendere accessibili le palestre, le piscine o i campi di calcetto».
Qual è il tema che le piacerebbe fosse affrontato in futuro?
«Far concepire l’attività fisico-motoria delle persone con disabilità come una fase della fisioterapia. Se ciò si realizzasse, lo sport diventerebbe un pezzo del percorso di riabilitazione. Il mio sogno sarebbe che questo processo fosse riconosciuto dal servizio sanitario nazionale».
Con la fine della sua avventura in seno al Cip finirà anche il suo impegno nel Comitato paralimpico internazionale (Ipc)?
«No, le due cose sono scollegate. D’accordo col presidente Andrew Parsons, e compatibilmente con quanto accadrà in altri ambiti, presenterò la mia ricandidatura per il Board dell’Ipc in occasione delle elezioni di settembre a Seul».
Dopo aver ufficializzato l’addio al Cip, ha annunciato la disponibilità a concorrere per essere scelto come futuro presidente dal Coni. Ha deciso da solo o è stato spinto da altri?
«Anche in questo caso si è trattato di una decisione maturata nel tempo e giunta a compimento nel momento in cui ho ritenuto conclusa la mia esperienza al Cip. Certamente quando ho dato la mia disponibilità ho immediatamente percepito la vicinanza e la spinta di rappresentanti del mondo olimpico e di esponenti delle singole federazioni sportive nazionali».
Come sta proseguendo la campagna elettorale?
«Avverto quotidianamente un crescente sostegno e questo ottimismo mi spinge ad andare avanti fino al 26 giugno, giorno in cui gli elettori si recheranno alle urne».
Qual è il nocciolo del suo programma?
«Tra i miei obiettivi c’è innanzitutto quello di ridare protagonismo e centralità agli organismi sportivi riconosciuti dal Coni, per quella che è la loro storia e le responsabilità che hanno assunto nel tempo. Il brand Coni deve tornare a essere centrale e tutti si devono sentire parte di una squadra vincente. Non credo al modello di un uomo solo al comando, ma vorrei rafforzare il supporto a federazioni sportive, discipline associate, società sportive e gruppi sportivi militari e dei Corpi dello Stato. Essi sono i protagonisti imprescindibili degli straordinari risultati ottenuti dall’Italia in campo internazionale e attraverso di loro è possibile valorizzare al massimo le atlete e gli atleti, che sono motore e baricentro dello sport italiano».
Dopo la riforma del 2019 sull’agone sono comparsi anche altri attori. Come vede i rapporti tra il Coni e Sport e Salute, oppure tra il Coni e il Ministero dello Sport?
«Penso che i diversi soggetti debbano saper giocare in armonia tra di loro e nello stesso tempo penso che la mia storia certifichi come la mia persona abbia sempre cercato in qualsiasi contesto il dialogo e il confronto. Mi sono speso per costruire rapporti per il bene di ciò che si rappresentava».
Quali sono le parole chiave della sua azione?
«Penso che siano fondamentali discontinuità e armonia. Il Coni non è più quello del passato da quando ha perso l’autonomia economica. La politica finanzia lo sport, quindi ben venga una politica che si occupi di sport nella misura in cui però non lo occupa».
Ha pensato a uno slogan per incentivare questo dialogo?
«No, ma un termine che mi piacerebbe rilanciare è normalizzazione. Dobbiamo essere capaci di creare comunità e spazi di confronto per normalizzare tutto e fare il bene per il Paese».