martedì 9 aprile 2019
I registi Gallego e Guerra mettono in immagini un canto epico sugli albori del traffico di marijuana e quindi della cocaina, prima dell'era dei narcotrafficanti
Il film “Oro verde. C’era una volta in Colombia”, diretto da Cristina Gallego e Ciro Guerra

Il film “Oro verde. C’era una volta in Colombia”, diretto da Cristina Gallego e Ciro Guerra

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Il rumore della pioggia è il sottofondo su cui scorrono i titoli di coda. L’acqua disseta finalmente la terra screpolata della Guajira, al confine tra Colombia e Venezuela. Un’isola di rocce implacabili e arbusti color ambra, vicina geograficamente e, al contempo, lontanissima dal verde debordante di Cartagena, Santa Marta e Aracataca, culla e scenario del realismo magico.

L’influenza del linguaggio mitico di Gabriel García Márquez si proietta, però, fin qui. I registi Cristina Gallego e Ciro Guerra sono riusciti a trasferire Macondo dal tropico al deserto. Dove, da tempo immemorabile, vive il popolo Wayuu: un aggregato di clan di pastori nomadi, le cui relazioni sono basate su un complesso sistema di scambi e reciprocità. E in cui le donne hanno un ruolo di primo piano. E’ una di queste famiglie allargate - i Pushaina - la protagonista di Oro verde. C’era una volta in Colombia, nelle sale da giovedì.

Nella saga di Ursula, Zaida, Raphayet, Peregrino, Indira, Leonidas - alcuni interpretati da attori professionisti, come i bravissimi José Acosta, Carmina Martinez e Natalia Reyes, altri da indigeni del luogo - si legge in controluce un ventennio cruciale per la storia colombiana, quello compreso tra la fine degli anni Sessanta e gli anni Ottanta. L’era della «bonanza marimbera», ovvero il boom della coltivazione e, soprattutto, esportazione della marijuana.

È questo "l’oro verde"» a cui si riferisce il titolo nella versione italiana. Anche se, forse, quello spagnolo - Pajaros de verano (Uccelli d’estate) - è più fedele al contenuto di questo canto epico trasposto in immagini. Reso ancor più suggestivo dalla scelta di conservare, per i dialoghi interni alla comunità, la lingua indigena, sottotitolata: solo per le interazione con "il mondo di fuori", gli attori vengono doppiati. Gli «uccelli migratori » (per questo estivi), in tale scenario, sono gli spiriti di cui è impregnata la cultura Wayuu, come pure i primi corrieri della droga nel gergo locale.

Oro verde racconta gli albori del narcotraffico in Colombia. L’epoca passpartout tra la violenza post-indipendenza narrata da Cent’anni di solitudine e il conflitto dell’ultimo Novecento, in cui la cocaina avrebbe narcotizzato - e catturato - la politica e preso in ostaggio la società. Siamo, in pratica, prima delle peripezie di Pablo Escobar, ormai familiari in Italia grazie alla serie Narcos.

La coppia Gallego-Guerra - già autrice del celebre El abrazo de la serpiente - si distacca nettamente dallo stile del narco-thriller trasmesso da Netflix come dalle recenti narco-stories cinematografiche. I registi scelgono e si concentrano su una microstoria, conosciuta per caso, mentre facevano ricerche nel Nord della Colombia. Una vicenda reale: è stata una famiglia Wayuu a dirigere e coordinare il primo export di marijuana. Nel ripercorrerla, però, il film profetizza il futuro imminente della nazione. Il bagno si sangue, vendette, tradimenti in cui annegano i Pushaina è lo stesso che presto avrebbe sommerso l’intero Paese. Non più a causa della marijuana bensì per colpa di un «oro verde » ancora più remunerato sul mercato internazionale: la cocaina. Già, il mercato internazionale. È quest’ultimo e la sua fame perenne di stupefacenti ad alimentare la violenza negli Stati produttori, come la Colombia. Una verità che il Nord del mondo preferisce dimenticare. E che il film rivela con potenza poetica.

Il giovane e squattrinato Raphayet, Wayuu - allevato dai alijunas, cioè non indigeni -, è a caccia di denaro per convincere il clan Pushaina a concedergli in sposa la bella Zaida. L’economia legale lo intrappola senza via d’uscita nel labirinto della povertà. Per ogni sacco di caffè venduto, Raphayet riceve tre pesos. La telecamera cattura il suo sguardo carico di rabbia mentre osserva dei giovani gringos (americani) spenderne quindici, senza batter ciglio, per una stecca di sigarette. Questi ultimi si trovano in Colombia con i Peacecorps, brigate di volontari inviate da Washington in America Latina per svolgere servizi sociali e, allo stesso tempo, fare propaganda contro il comunismo, mostrando il volto buono del potente vicino del Nord.

Sono loro - ragazzi benintenzionati quanto superficiali - a chiedere a Raphayet di procurare della marijuana. La collisione fra questi “universi paralleli” - la cui distanza è sottolineata dal susseguirsi rapido di lingua originale e doppiaggio - è riassunta in una scena cruciale. L’indio è seduto sulla spiaggia accanto a Moises, miglior amico e neo-socio nel nuovo business della marimba. In lontananza, gli scanzonati statunitensi festeggiano la prima fornitura di erba. «La marijuana è la felicità del mondo», dice Moises. Raphayet, in un barlume di consapevolezza li guarda e risponde: «Per loro».

La "felicità" e la ricchezza dei Pushaina sarà solo effimera. Ben presto, l’abbondante denaro della droga corroderà i rapporti familiari e comunitari. Perfino le regole di convivenza più sacre saranno stravolte. A differenza del più celebre romanzo colombiano, Oro verde concede, però, un’altra opportunità sulla terra a una stirpe condannata a cent’anni di solitudine. O almeno così lo spettatore può credere mentre vede una piccola Pushaina tornare pastorella e vagare, con ostinata resistenza, per la Guajira. Un epilogo o un nuovo inizio?

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