lunedì 15 ottobre 2012
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​Erano sette. Religiosi anglicani, autoctoni delle Isole Salomone, Robin Lindsay, Francis Tofi, Alfred Hill, Ini Paratabatu, Patteson Gatu, Tony Sirihi e Nathaniel Sado, avevano fatto una scelta: una vita per il Vangelo e per la pace. I fianchi cinti da una fascia, il bastone nella mano destra, sul petto un medaglione con il volto di Cristo, simboli della loro comunità, la Melanesian Brotherhood. Giravano come pellegrini tra i villaggi dell’arcipelago oceanico. Nel servizio ai poveri e ai malati. Vissero insieme e insieme morirono da martiri nel 2003: per aver rifiutato ogni logica etnica e ogni prassi di violenza, convinti che a proteggerli sarebbe bastata la loro testimonianza di sempre. Erano sette. Proprio come i trappisti uccisi nel 1996 a Tibhirine, periti perché rimasti sul campo, per fedeltà a un intero popolo, a prescindere dai responsabili del massacro: siano stati militari dell’esercito di Algeri, integralisti islamici, o agenti dei servizi segreti. Come i sette monaci francesi, anche i sette martiri melanesiani sprigionano il fascino degli “uomini di Dio”. «Sono certo che questi fratelli diverranno più grandi con la loro morte e che la loro storia avrà un’eco più vasta… È come se il mistero pasquale si sia realizzato in mezzo a noi… Abbiamo visto il volto brutale del male e abbiamo conosciuto anche la paura e le tenebre, ma siamo anche stati testimoni del bene, intravedendo la promessa di ciò che rimane in eterno», così ha commentato lo scrittore Charles Montgomery. Ora, ad ampliare l’eco di quelle voci e a collocare questo rilevante tassello nel mosaico martiriale del ’900 è Monica Attias. Con il suo Racconti di pace in Oceania. La vicenda dei sette martiri anglicani della Melanesian Brotherhood (Urbaniana University Press , pagine 216, euro 18), l’autrice però, parte da molto più lontano. E, attraverso documenti d’archivio, diari e interviste, ci restituisce il filo rosso della continuità spirituale che lega questi martiri contemporanei a quelli del passato, soprattutto verso la metà dell’Ottocento, quando, sebbene missionari francescani fossero giunti a Point Cruz insieme agli spagnoli già nel 1568, iniziò la vera evangelizzazione nell’area. Ed ecco, insieme a quello di altri missionari, il sangue versato dal vescovo cattolico Epalle, ammazzato a colpi d’ascia nel 1845 a Santa Isabel; e dal vescovo anglicano John Coleridge Patteson, ucciso nel 1871 sull’isola di Nukapu scambiato per uno di quegli schiavisti che aveva a lungo contrastato.Così, senza dimenticare i sacrifici dei primi missionari giunti in queste terre allora abitate da popolazioni antropofaghe, scoprendo l’impegno durante l’età coloniale e il lavoro di promozione umana di anglicani, cattolici, protestanti (sovente osteggiati dai mercenari bianchi), il lettore viene accompagnato dall’800 al ’900, sino alla fine degli anni Novanta a Guadalcanal, teatro di una guerra civile tra autoctoni e coloni originari della vicina isola di Malaita. Scontri cruenti che videro non solo il soccorso delle comunità religiose, ma anche la loro mobilitazione nella società civile al fine di far convergere le parti attorno a un tavolo di pace. Si muovono dentro questo quadro anche i sette membri della Melanesian Brotherhood, la fraternità anglicana di stampo francescano fondata nel 1925 da Ini Kopuria. Loro, questi fratelli (o Tasiu, come venivano chiamati), impegnati nel disarmo delle fazioni in lotta, sino ad accamparsi tra le linee nemiche pregando con le fazioni opposte. Implorando, nel nome di Dio, di non oltrepassare le barricate. Scongiurando qualsiasi attacco. Negoziando il rilascio di prigionieri. Con esiti alterni. Talvolta i militanti si arrendevano ai religiosi, consegnando loro le armi, come in un rito di purificazione. E in questo caso la popolarità della Melanesian Brotherhood cresceva insieme al numero di vite salvate. Talora i risultati erano negativi e la scelta di esporsi nella pacificazione della guerra civile, finiva per rivelare la loro vulnerabilità, quella di chi non pensa a proteggersi, restando a operare nel continuo pericolo. «Pur essendo i religiosi melanesiani dei cristiani autoctoni» la loro esistenza era percepita come straniera, «come una contraddizione a una visione etnica della società», scrive Attias in queste pagine che chiudono con i ritratti dei sette e le sequenze del loro sacrificio. Partiti in canoa nell’aprile del 2003, da Honiara verso la Weather Coast, per riportare a casa il corpo del loro confratello Nathaniel Sado (scomparso durante una missione nella quale doveva consegnare a un signore della guerra, Harold Keke, una lettera invitante al dialogo da parte dell’arcivescovo anglicano della Melanesia), appena misero piede sulla spiaggia vennero trucidati dalle milizie dello stesso Keke. Nelle settimane successive, per il tempo in cui si credette che i religiosi potessero ancora essere vivi, la comunità vegliò in preghiera tutte le notti. Nel frattempo a Guadalcanal, la situazione degenerava e altri cristiani venivano rapiti. Così il governo australiano, mai intervenuto nei tre anni d’inferno precedenti, inviò un contingente di pace nelle isole. Fu intimato un ultimatum ai miliziani della Guadalcanal Revolutionary Army, diversi prigionieri furono liberati e Keke fu costretto ad ammettere l’uccisione dei Melanesian Brothers tre mesi prima. Qualche giorno dopo si arrese consegnandosi alla giustizia. Ma non è tutto. Alla notizia della morte dei sette Tasiu, si fermò l’intera nazione. L’evento aveva segnato non solo la fine delle ostilità ma l’inizio di un processo destinato a liberare le isole dalla violenza, a ricostruirne il tessuto umano e sociale perché «i criminali non sono statistiche senza nome; sono wantok, i vicini, coloro che incontrerai di nuovo nel villaggio», affermano i Melanesian Brothers. Una folla immensa partecipò ai funerali dei sette religiosi. Ex-combattenti chiesero di poter entrare nella Fraternità melanesiana cercando perdono. E se molti osservatori politici definiscono la vicenda sin qui ricordata “cruciale” per la svolta diplomatica australiana e neozelandese nel Pacifico che determinò l’intervento nelle Isole Salomone, Charles Montgomery ha commentato: «È stato il loro martirio, e non un miracolo sensazionalistico, a riportare la pace nelle Isole Salomone», aggiungendo: «Vedo questo come la vittoria trionfante del Dio dell’Amore sul dio della guerra, e io non sono un cristiano».
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