giovedì 28 luglio 2022
Prevalgono gli approcci di tipo terapeutico o punitivo e quelli eticizzanti, mentre occorre formare a un uso intelligente
Un'immagine da CY-B3LLA, la nuova collezione di Non-Fungible Tokens basata su elaborazioni 3D della modella Bella Hadid

Un'immagine da CY-B3LLA, la nuova collezione di Non-Fungible Tokens basata su elaborazioni 3D della modella Bella Hadid - reBASE/Reuters

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L’idea che il digitale sia un insieme di strumenti che, tramite il loro utilizzo, possano condizionare le esistenze delle persone perde sempre più sostanza concettuale. É molto più interessante, invece, focalizzare l’attenzione critica sulla dimensione umana che, negli spazi online, concretizza processi intenzionali, liberi e personali di intervento sull’esistente. La nostra è una società digitalizzata non tanto perché governata da software, algoritmi e macchine più o meno intelligenti, quanto perché attraverso esse, l’individuo (intelligente) può finalmente manifestare e affermare il proprio primato in termini di relazione, conoscenza, rappresentazione e soddisfazione di bisogni. Molto si discute sul legame tra vite collettive e web. Si tratta di una questione entrata velocemente nella sfera pubblica tanto da configurarsi come un argomento di senso comune. In alcuni casi la riflessione risulta parziale e fuorviante. È il caso di una certa prospettiva educativa che tende a circoscrivere il digitale come un perimetro patologico o criminale, da affrontare con un approccio terapeutico (il web fa male e, quindi, bisogna trovare una cura) o punitivo (negli spazi online si commettono reati che vanno sanzionati). Psicologi e psichiatri, ad esempio, adottano spesso un modello Dpt (diagnosi-prognosi-terapia), concentrandosi sulla lotta alle cosiddette 'dipendenze'. Oppure, Polizia postale e giuristi concentrano la propria azione sui comportamenti illeciti, mettendo in guardia dalle eventuali ripercussioni civili e penali che un gesto delittuoso commesso in rete può determinare. Si tratta di interventi credibili ed encomiabili soprattutto in termini di prevenzione. Ma, in questo modo, la vita digitale è implicitamente ridotta a un’anomalia, a una stortura che, grazie a un intervento professionale, può essere raddrizzata. Anche sul piano dell’analisi filosofica e teologica, a fianco di letture pregevoli (è il caso dell’Onlife di Luciano Floridi o della Documanità di Maurizio Ferraris), si incontrano i tentativi discutibili di una certa filosofia scientifica e di una certa teologia, impegnate più nell’esercizio asettico di eticizzare e moralizzare le macchine, che in quello di elevare l’umano. Ma non finisce qui. All’apparato scientifico-professionale si affianca quello cultural-divulgativo. A volte è sufficiente essere genitore, insegnante, educatore o pastore per intervenire nella discussione: non si contano più i decaloghi, i manifesti, i libri-guida che suggeriscono come diventare perfette mamme e papà digitali, le conferenze o i workshop che mostrano immagini e video apocalittici (bambini appena nati che utilizzano device, personaggi famosi che attraverso la rete diffondono ogni tipo di barbarie, presunte sfide social in cui i minori rischiano l’incolumità). La parzialità e l’intenzionalità distorta sono in questi casi evidenti, e poco o nulla apportano a un dibattito serio e produttivo. Lo scenario finora delineato potrà apparire un po’ forzato. Eppure scriveva Goethe ne Gli anni di apprendistato di Wilhelm Meister - «le idee generali e la grande presunzione rischiano sempre di provocare terribili disastri». Soprattutto se si tratta - come nel caso della cultura digitale - della quotidianità di miliardi di donne, uomini, istituzioni e realtà organizzative nel mondo. Comprendere che il digitale è anzitutto una condizione culturale (ossia umana e sociale) più che meramente tecnologica, è il primo passo di ogni atto di comprensione autentica, che sia in grado di evitare la tentazione deresponsabilizzante del rimedio, del divieto, della condanna e dell’indignazione. E che sia capace di porre le basi per una Bildung, ovvero una formazione di più alto profilo, che vada oltre il semplice elenco degli usi corretti o pericolosi della rete e possa tradursi in un progetto educativo centrato sull’acquisizione e interiorizzazione di competenze ( life skills) capaci di scriveva il pedagogista John Dewey «trasformare azioni meramente ripetitive, cieche e impulsive in azioni intelligenti».

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