domenica 6 marzo 2022
Nel saggio di Salvatore Bulla una Deledda antimoderna e anticonformista, poco incline ad assecondare il torpido e greve spirito dei tempi
Grazia Deledda nel 1926

Grazia Deledda nel 1926 - WikiCommons

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Luigi Pirandello, che poi avrebbe vinto il Nobel come lei, la irrise in un romanzo, Suo marito (1911), mettendo in caricatura una personalità ritenuta mascolina e un marito valletto: un marchio che avrebbe dovuto comportare, allora, una damnatio memoriae, ma che oggi potrebbe valere persino come una medaglia conquistata sulla strada per l’emancipazione della donna. Eppure Grazia Deledda, partita da una povera cittadina di provincia al centro di un’isola persa nel Mediterraneo, arrivò lontanissimo, subito accompagnata per altro dal successo di pubblico e dal riconoscimento di critici importanti come Attilio Momigliano. Proprio costui, a fronte della misteriosa impenetrabilità della scrittrice sarda, formulò nel suo Ultimi studi (1954) la domanda: “Quale posto occupa la Deledda nella letteratura contemporanea?”. Interrogativo a cui Salvatore Bulla in Grazia Deledda. Prospettive del religioso per una lettura critica (InSchibbolet, pagine 432, euro 26,00), così risponde: «Chi vorrà cercare aspetti veristi in Grazia Deledda li troverà, così come reperirà ciò che desidera chiunque vorrà scrutare in lei la femminista, la decadente, la romantica, la naturalista, la romanziera rosa, la politica, e persino – come potrebbe dare l’impressione di essere il fine della nostra ricerca – la Grazia Deledda cattolica». Il giovane critico non ha dubbi: se le premesse della futura ricezione deleddiana resteranno ancora inscritte in quell’originaria necessità di storicizzazione – e dunque di neutralizzazione – sollevata dallo studioso di discendenza crociana, allora la girandola delle risposte parziali non potrà che essere la stessa: per una scrittrice non risolta e sempre in bilico tra Verga e D’Annunzio. Gli storici della letteratura a vocazione antropologica inseguiranno l’ultima grande rappresentante della nobile cultura agropastorale. Quelli interessati ai gender studies non potranno che celebrare la suggestiva anticipatrice della scrittura declinabile al femminile... Diciamolo chiaro: di questa Deledda Bulla – un giovane uomo che è entrato in seminario e che anche grazie alla scrittrice sarda ha riconosciuto la sua vocazione – non saprebbe che farsene. Il suo è uno studio rigoroso di vasta mole la cui originalità sta nella ricognizione relativa agli straordinari e numerosi apporti vetero e neotestamentari fornitici dalla più grande romanziera italiana del Novecento, senza dire della fondamentale dialettica tra tragico classico e tragico cristiano, o dell’imprescindibile “ontologia del male” che da quell’opera emerge in modo così perentorio. Eppure, a leggere Bulla, persino questa sinora inaspettata declinazione cattolica dell’opera deleddiana diventa secondaria rispetto a ciò che viene da lui ritenuta la questione davvero cruciale, tale da involgere sollecitazioni etiche in vista d’una lettura che sia effettivamente “radicale”. Parlo della questione del confronto tra le uniche due chiavi ermeneutiche che valga davvero la pena di utilizzare per disserrare quest’opera imbarazzante, se non addirittura scandalosa: «il nichilismo e la fede cristiana». Il libro di Bulla è folto di spunti e sollecitazioni: sorprende e spiazza. Ha un suo valore indubitabilmente filologico quanto allo stato degli studi deleddiani. Postula infine, come sempre dovrebbe essere in una monografia, acquisizioni critiche che resteranno. Ma tutto questo non sarebbe nulla se non si traducesse in quella sorta di mastice che avvolge l’incandescente magma della sua ispirazione e delle sue verità. Bulla è senz’altro uno studioso ma non ha scritto questo libro, nelle sue urgenze vere, soltanto da studioso. Quella Deledda antimoderna e anticonformista, poco incline ad assecondare il torpido e greve spirito dei tempi, “estrema” (aggettivo qui ad alta frequenza), è stata davvero la sua personale guida spirituale. Quella serrata dialettica tra fede cristiana e nichilismo ( Tolstoj o Dostoevskij? I quali infatti campeggiano nel finale), è stato veramente il suo problema di uomo, che diventa in queste pagine il problema di noi lettori. Non si può sfuggire a questo aut aut: «Colui il quale crederà che la decisione dell’espiazione, dell’annullamento di sé, coincida di fatto con la rinuncia totale della vita (…) vedrà emergere con chiarezza nella Deledda la scelta, letterariamente consapevole, del nichilismo». Viceversa, l’antagonista, il credente, non potrà che ravvisare in quella stessa volontà di espiazione e sacrificio gli «espliciti richiami a una visione intimamente religiosa», temi cruciali propri della «vicenda biblica e cristiana». Avendo amato e studiato appassionatamente la Deledda, con lo stesso coinvolgimento esistenziale di Bulla, ho sempre creduto che tutto si esaurisse nella prima opzione, l’istanza del nichilismo, ravvisando nel suono delle sue pagine quello lugubre e disperato del nulla, poco importa se dissimulato sotto un sistema di leggi quasi totemico che condiziona le azioni di tutti i suoi personaggi. Da oggi so che le cose non sono così semplici.

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