mercoledì 13 marzo 2019
La morte sul Nanga Parbat dello scalatore di Sezze e quella dell’inglese Ballard prolungano l'elenco dei giovani “sognatori” che non ce l’hanno fatta mentre tentavano di aprire nuove vie in alta quota
Una delle ultime immagini dei due scalatori Daniele Nardi e Tom Ballard morti sul Nanga Parbat

Una delle ultime immagini dei due scalatori Daniele Nardi e Tom Ballard morti sul Nanga Parbat

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«Un posto bellissimo». Quando ha scritto queste parole, sul libro dei visitatori del bivacco Eccles, a 3.860 metri di quota nel massiccio del Monte Bianco, Marco Anghileri non poteva certo immaginare che sarebbero state anche le ultime. Poche ore dopo, sarebbe precipitato dal Pilone centrale del Freney, nel tentativo di effettuare la prima salita invernale in solitaria della via Jöri Bardil. Domani saranno cinque anni dalla scomparsa, a soli 41 anni, del fortissimo alpinista lecchese, un vero specialista delle invernali solitarie, su tutte la Solleder al Civetta, la prima via di sesto grado dell’alpinismo moderno, salita in cinque giorni nel gennaio del 2000. Alpinista vecchio stile, un vero cavaliere romantico delle vette, Marco sulle montagne cercava spazi di libertà, coltivava sogni e progettava imprese che, agli occhi di chi vive rasoterra, potevano anche sembrare “folli”, ma per lui erano l’essenza stessa della vita. Se l’è cercata, Marco? No, ha soltanto salito fino all’ultimo gradino la sua personalissima “scala dei sogni”, inseguendo obiettivi grandi capaci di riempire il cuore.

Come Marco, anche Daniele Nardi ha percorso fino in fondo il sentiero dei desideri. In cima alla lista aveva messo proprio lo Sperone Mummery del Nanga Parbat, dove pochi giorni fa è morto, insieme al giovane inglese Tom Ballard e dove resterà per sempre. Perché ci sono andati, sullo Sperone? Lo stesso Messner li aveva sconsigliati. E allora, perché? «Mi piacerebbe essere ricordato come un ragazzo che ha provato a fare una cosa incredibile, impossibile, che però non si è arreso e se non dovessi tornare il messaggio che arriva a mio figlio sia questo: non fermarti, non arrenderti, datti da fare perché il mondo ha bisogno di persone migliori che facciano sì che la pace sia una realtà e non soltanto un’idea... vale la pena farlo». Ecco, in questo messaggio su Facebook scritto pochi giorni prima della morte, perché Daniele è andato sullo Sperone. Per inseguire un sogno e lasciare una testimonianza, una traccia da seguire.

Se si ripercorre a ritroso la storia dell’alpinismo, è sempre stata questa la molla che ha spinto gli uomini a intraprendere la «lotta con l’Alpe», come la definiva Guido Rey sul finire dell’800. Perché hanno rischiato e sono morti, nel-l’estate del 1936, poco più che ventenni, Andreas Hinterstoisser e i suoi compagni? Perché volevano essere i primi a domare l’Orco, la terribile parete Nord dell’Eiger, nell’Oberland Bernese. E lo stesso desiderio spingerà, l’anno successivo, i comaschi Mario Molteni e Giuseppe Valsecchi ad attaccare l’ancora inviolata parete Nord-Est del Pizzo Badile, in val Bregaglia, al confine tra Italia e Svizzera, uno dei grandi “problemi” allora ancora irrisolti dell’alpinismo eroico degli anni Trenta. Legatisi a metà parete alla cordata del lecchese Riccardo Cassin, i due giovani arrivarono in vetta, coronando un sogno, ma morirono di fatica durante la discesa. Proprio Cassin ne raccolse le ultime parole tra l’urlo della tempesta.

Forse anche da quella esperienza, maturò la convinzione che «il più grande alpinista è quello che muore nel proprio letto». Come del resto è capitato a lui, scomparso a 100 anni suonati nell’estate del 2009, al termine di una lunga vita sempre in vetta. E che dire, allora, della parabola di Renato Casarotto? Tra i più forti alpinisti italiani degli anni Settanta e Ottanta, muore a 38 anni a poca distanza dal campo base del K2, per le ferite riportate cadendo in un crepaccio. Con lui la sorte si è davvero accanita. Partito per affrontare il difficile sperone sud-sud-ovest della seconda montagna più alta della Terra, a trecento metri dalla cima decide di rinunciare per un repentino cambiamento delle condizioni atmosferiche, che avrebbero reso troppo pericoloso proseguire. Una decisione prudenziale dettata dall’esperienza e dal buon senso, che però non gli salverà la vita. Ormai al termine delle difficoltà, la caduta fatale nel crepaccio per il cedimento di un ponte di neve.

Sul K2 ha perso la vita, a soli 29 anni, anche Lorenzo Mazzoleni, giovane ma già affermato membro dei Ragni della Grignetta, sodalizio alpinistico di Lecco, che ha portato il vessillo della città sulle vette di tutto il mondo. Patagonia e Himalaya erano il suo terreno di gioco preferito, tanto che, a soli 22 anni, era già in cima al Cho Oyu, il suo primo Ottomila e a 26 sul punto più alto della Terra: l’Everest. Per il 50esimo di fondazione, i Ragni organizzano una spedizione al K2 e Lorenzo è tra le punte di diamante del gruppo. Tutto fila liscio fino all’arrivo in vetta, ma durante la discesa il giovane scivola e muore. Anche il suo corpo, come quello di Daniele Nardi e dei tanti che hanno perso la vita sui giganti del pianeta, è rimasto per sempre tra i ghiacci eterni, ma il suo ricordo e la stima degli amici hanno permesso di realizzare una scuola per 400 bambini nepalesi, che vivono in grande povertà, cui Lorenzo era molto legato.

L’attrazione per le grandi montagne è costata cara anche allo svizzero Ueli Steck, scomparso a 40 anni, nel 2017, durante l’ascesa della difficile parete ovest del Nuptse, nel massiccio dell’Everest. Detentore del record di velocità sulle pareti nord dell’Eiger, del Cervino e delle Grandes Jorasses, Steck seguiva un suo percorso di ricerca, che faceva dell’avventura allo stato puro il filo conduttore. «Per me Ueli Steck è stato un grande alpinista ma non perché saliva sull’Eiger in due ore, ma perché aveva il coraggio di entrare nelle grandi pareti come un avventuriero, non sapendo come sarebbe andata a finire», lo ricordò così, Messner, in un’intervista ad Avvenire sul concetto di “impossibile” in montagna. Un terreno ancora fertile e inesplorato, che aspetta altri cavalieri coraggiosi. Sognatori un po’ idealisti, avventurieri dell’ignoto in grado di buttare il cuore oltre l’ostacolo. Uomini dai desideri grandi capaci di far sognare anche noi, che pure viviamo con i piedi per terra e facciamo tanta fatica a capire che cosa li spinge a cercare sempre un po’ più in la. Verso l’infinito.

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