martedì 10 novembre 2009
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Venti anni dalla sua morte… Conobbi Benigno Zaccagnini la sera del 17 o 18 marzo 1978, subito dopo il rapimento di Moro e la strage di via Fani. Elio ed Ettorina Brigante, sorella di sua moglie Anna, che lo ospitavano nella loro casa di via della Camilluccia, mi chiesero per telefono se potevo dare un 'sostegno spirituale' a Benigno. Da quella sera spessissimo, anche fino a notte tarda, gli sono stato vicino nel tempo di quei 53 giorni di un dolore che per lui durò altri 11 anni, fino alla morte, 5 novembre 1989. L’ho visto pensare, soffrire, piangere e pregare fino alla sera dei funerali di Moro. Ebbene: ancora oggi, nelle Commemorazioni anche solenni come quella a Montecitorio e nei libri a lui dedicati con belle parole sull’uomo, sul politico e sul testimone di 'laicità' cristiana ­magari un po’ adattata alle circostanze di oggi - c’è sempre un vuoto, e su quei 53 giorni si scivola via tra pudore e timore, come fosse meglio non parlarne. Aleggia come l’ombra di una 'omissione' - ci hanno fatto anche libri! - con sottintesa un’accusa che tocca non solo Zaccagnini, ma con lui anche Paolo VI. Già: nelle Lettere di Moro si leggono cose dure verso Zaccagnini, ma anche verso Paolo VI, che «ha fatto pochino, forse ne avrà scrupolo». E nessuno ricorda che Moro aveva informazioni solo dai carnefici, che forse nulla gli dicevano della realtà in cui proprio Paolo VI le provò tutte, in Italia e all’estero, presso organismi internazionali, Croce Rossa, Amnesty e Onu, e fece raccogliere una grande somma, nel caso servisse. A metà aprile di quel 1978 Civiltà Cattolica (bozze sempre viste in Segreteria di Stato) scrisse che ­salvo trattare alla pari tra Stato e Br - si doveva fare tutto il possibile per liberare Moro: tutto… In quei giorni e in quelle notti ho visto anche Zaccagnini deciso a fare questo tutto possibile, ma salvo tentativi di sciacallaggio politico non si aprì alcuna via per salvare il suo amico e guida, colui che solo lo aveva convinto ad accettare la Segreteria della Dc. La sua frase drammatica ripetuta tante volte fu questa: «Se ci fosse uno spiraglio!». Lo spiraglio non ci fu mai, e anzi Moro fu ucciso proprio la mattina del 9 maggio, quando uno parve potersi aprire. Lui del resto non aveva concesso nulla: diventato un ingombro, doveva morire. Ebbene: dopo Moro e la sua famiglia, dopo gli uomini della scorta e le loro famiglie, prime vittime di quel dramma furono proprio loro due, Benigno Zaccagnini e Paolo VI. Seguii da vicino quel dramma anche in altro modo. Ero in quotidiano contatto - e Zac lo sapeva - con monsignor Cesare Curioni, allora storico cappellano a San Vittore e poi ispettore generale dei cappellani di tutte le carceri italiane, che per conto del Papa provò tante altre strade, anche parlando con Renato Curcio e Alberto Franceschini, Br allora processati a Torino, che a lui si dissero del tutto estranei alla vicenda. Fu Curioni, tra l’altro, a scrivere di notte e sotto dettatura del Papa, presente monsignor Macchi, la prima bozza rivolta agli «Uomini delle Brigate Rosse». Per ragioni varie allora ero in contatto anche con Tonino Tatò, segretario di Enrico Berlinguer, e anch’essi sapevano. La 'strategia della fermezza' ­giudizio informato, e non col senno di poi - non fu scelta feroce imposta a Zac dal ferreo Pci, ma obbligo di una realtà senza alternativa, dolorosissimo per Zaccagnini e per Paolo VI. Falsa quindi la 'vulgata' del Pci che comandava con gelida fermezza, di Zaccagnini che obbediva tremebondo e impotente e del Papa e del Vaticano che si limitarono a preghiere e lamenti opponendosi ad ogni concessione: ingiuria senza fondamento, anche se aleggia nelle commemorazioni e in omissioni di recenti libri. Uno Zaccagnini passivo e poco energico? Eppure - lo ha scritto anche Enzo Biagi, mai smentito ­egli stesso mi disse che se quel 16 marzo le Br non avessero rapito Aldo Moro, dopo l’approvazione del nuovo governo egli si sarebbe dimesso da segretario: non condivideva alcune nomine di ministri fatte a sua insaputa. Poco energico? La sera dei funerali di Moro nella chiesa di Cristo Re vietata agli uomini della Dc dalla famiglia, in casa Brigante ci fu un’altra messa di requiem, e arrivò una telefonata di Fanfani: chiedeva al segretario il permesso di partecipare, eccezione personale, alle esequie. La risposta di Benigno fu forte e secca: «No! Sei libero, ma se vai ti denuncio ai probiviri e ti faccio espellere dal partito!». Ultimo: qualche settimana dopo, nei giorni delle votazioni per il nuovo presidente della Repubblica, Benigno mi dice al telefono che è addolorato perché gli uomini della Dc, Piccoli e altri, non vogliono votare Pertini come presidente. Chiedo se a suo parere la scelta di Pertini è giusta e opportuna. Mi risponde che è anziano, talora irruento e imprevedibile, ma galantuomo e pulito. Allora ripenso alla sua confidenza sulle dimissioni: «Chiama i tuoi 'amici' e di’ loro che se domani non votano Pertini tu ti dimetti!». Il giorno dopo Sandro Pertini fu eletto presidente della Repubblica. Il mite Zac aveva fatto la sua parte: come sempre.
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