domenica 19 giugno 2011
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La valle in cui si trova il mio monastero (a Pra d’Mill, ai piedi di Punta Ostanetta, sulle Alpi Cozie) è chiusa da una corona di montagne a semicerchio, che abbracciano colui che si ferma a guardarle e danno un senso di accoglienza e di protezione. Per chi ha nell’orecchio e nel cuore questo versetto del salmo è impossibile non collegarlo allo spettacolo che circonda il monastero, nascosto a mezza costa in una valle piccolina e stretta, tale che lo sguardo può spaziare solo volgendosi verso le cime, o in caso, guardando dall’altra parte, scendere verso la pianura abitata, ma solo intravista, quasi per portare la Grazia raccolta nell’alto, seguendo il corso del torrentello che scende a valle.Arrivando da un’isola totalmente piatta del Mediterraneo, abituato a lanciare lo sguardo e la preghiera verso un orizzonte senza limiti, guardando l’acqua talvolta calma e talvolta agitata, ma sempre in movimento, questa montagna calma e solida mi ha insegnato una preghiera diversa.Da una parte la montagna protegge, nasconde e abbraccia e in tal modo dona un senso di sicurezza, e, in un certo modo, ricorda la parola di Gesù: «Tu, quando preghi, entra nella tua stanza chiudi la tua porta e prega tuo Padre nel segreto. Tuo Padre vede nel segreto» (cfr. Mt 6,7). La preghiera si fa più intima, segreta, abita il profondo del cuore. La montagna che ci circonda è povera, abbandonata, estremamente solitaria, ma dà un grande senso della Provvidenza, del Dio attento, che copre della sua benedizione quanti stanno sotto la sua mano. È un montagna quasi senza vento, salvo rare e brevi volte in cui il soffio violentissimo sconvolge tutto, come quello dello Spirito nel giorno della Pentecoste.Dall’altra la montagna è un ostacolo che si oppone, che impedisce allo sguardo di andare "oltre" e rimanda alla finitezza dell’uomo. L’uomo si sente piccolo e spesso totalmente impotente; sa che Dio è oltre ed irraggiungibile. In quella cresta che tocca il cielo si ferma la capacità dell’uomo di andare in alto e il vasto spazio del mondo ed ancor più quello di Dio, è oltre. All’uomo non rimane che scoprire il proprio limite e lavorare per accettarlo, pur non abbassando il tiro dello sforzo, del desiderio, dell’intelligenza, della fantasia, della coscienza della sua propria grandezza e del fatto che i grandi limiti della vita possono essere spinti sempre più lontano. Ma la cima della montagna dice anche che, una volta raggiunta, essa presenta altri limiti, un altro spazio con confini qualcosa ancora da scoprire, una bellezza sempre nuova.La montagna si può guardare e affrontare solamente con umiltà, quella vera che ci permette di aprirci a Dio, quella in cui la verità della nostra grandezza e della nostra piccolezza si uniscono e sono accettate con semplicità, senza passività né tristezza. L’uomo sa che può godere della montagna anche semplicemente guardandola, come un bambino, come chi non ha forze, e che questo sguardo può riempire, colmare, dilatare il cuore; ma che essa chiama, secondo le forze, alla salita, alla scoperta, all’andare di cima in cima, all’accettare che per una nuova conquista bisogna prima scendere. Senza l’umiltà della discesa l’uomo non raggiunge Dio. Solamente quando è sceso nel profondo vallone della sua piccolezza e anche del suo peccato in lui si apre la speranza della bellezza della salita, del raggiungere una nuova cima, dell’avvicinarsi a Dio, a quel Dio che per primo ha voluto scendere nel baratro della miseria dell’uomo per portarlo in alto nella sua Gloria.La montagna insegna all’uomo che non si può salire senza fatica e che la fatica permette il gusto della conquista. Ma anche che la gioia che si prova è totalmente gratuita, incomparabilmente più grande e diversa, senza proporzione con la pena della fatica. Non è la gioia di una vittoria sportiva, che vuole che ci sia anche uno sconfitto. È una gioia pura, condivisibile, che lascia anche molto soli perché incomunicabile; in essa la presenza dell’altro è quella di un amico, non di un concorrente, necessaria per godere davvero del momento, della grazia donata, che lega insieme la bellezza immobile alla dinamica del cammino. Il tutto è bello e richiede di essere gustato in silenzio. Come la preghiera.In montagna si sale in cordata. Anche nella vita spirituale non si può andare molto avanti e in alto da soli; in un caso e nell’altro non è neanche una cosa corretta. Anche lo sconosciuto è accolto, salutato, aiutato se ne ha bisogno, guidato se è perso. Nessuno può dire di avere una vita veramente spirituale se non si fa carico dei fratelli del mondo intero. La solidarietà viene dal fatto che la montagna è grande e che noi siamo coscienti e contenti di essere piccoli. Guardare la montagna, scalarla, scendere col senso della fine di tutte le cose, ma anche la riconoscenza per ciò che si è ricevuto, in fondo gratuitamente, il desiderio di una nuova salita, o il silenzio nello stare a guadarla, sapere che la montagna ci unisce e non ci divide da tutti quei popoli che stanno oltre il raggio della vista, tutto è parabola della nostra vita spirituale, che si colma di Dio e abbraccia tutti gli uomini.
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