
ANSA
Se c’è qualcosa di imperscrutabile è l’innamoramento. Quello psicofisico, quello disincarnato, o di quella strana categoria che attraverso i libri sembra estrarli tutti anche insieme, da improbabili realtà fisiche o coincidenze. Ecco un ragazzo - Matteo Moca - che mentre sta cominciando a studiare l’ebraico, che potrebbe diventare il senso della propria vita, incomincia a leggere una scrittrice che dal suo nichilismo fa degli spazi bianchi la sua forza, e quel silenzio di spazio e di biancore comincia a germinare. Perché? Come? Cosa si interpone in quello spazio profondo dove i due cominciano a nuotare nell’innamoramento di chi ne è preso, confluendo in un sistema acquatico che forse, magari soltanto per un attimo, li accomuna?
Nessuno può dare risposte alle domande degli incontri, agli sguardi aperti, sorridenti verso l’ignoto, quelli che il vero critico apre verso l’altro, per capirlo. Renato Serra ne fece un baluardo fisso, sebbene non dicesse così. Ma quello sguardo a occhi aperti sott’acqua a rischio del sale marino, è il dono del rischio che corre Matteo Moca. Il silenzio, lo spazio bianco non si sa quanto possano coincidere con l’esegesi del primo lettore, ma funzionano perfettamente con il critico avveduto che insegue la cerva dagli occhi completi che rappresenta per lui l’idolo, la perfezione di una scrittura. Matteo Moca ha dedicato a Fleur Jaeggy Una consunzione infinita (Italo Svevo, pagine 162, euro 16, 00), un libro molto bello e intenso che racconta l’attraversamento che ha provato leggendola mentre sperimentava nell’anima e nella mente la ricchezza della lingua ebraica, che sta nell’omissione. Ma con altrettanta intensità pensa a Maurice Blanchot, al suo Infinito intrattenimento, alla Conversazione infinita, allo Spazio letterario che negli anni Sessanta espande l’idea della letteratura come straordinario spazio metafisico. È anche una delle ambientazioni temporali, non personale, della scrittrice - che nasce nella sua configurazione in quegli anni, sebbene si orienti verso l’espressionismo germanico e all’idea di Consunzione: tisi e ogni altra malattia che esausti, come la letteratura.
Quanto può incrociarsi l’adesione di un critico con il suo soggetto? Credo sia lo spazio della vicinanza ma più quello dell’attrazione a determinarne l’avvicinamento (da due diversi, da due opposti?), sebbene entrambi possano essere elusivi, e ciò è misterioso. Come l’idea che nel vuoto, nel bianco dell’omissione simile a quello che esercita la poesia, stia il senso, il segreto. Di sicuro Fleur Jaeggy nelle pagine di Moca è un altro da sé che prolunga quello che ha dato lei stessa senza riconoscersi, o sperdendosi, nei libri che ha scritto. Il critico osserva se stesso nei dettagli che esamina? O viene attratto da altro? Nella sua fedeltà segue amorosamente i dettagli, i più acuti. Quell’indistruttibile traccia sanguinosa del crimine, l’ossessività della colpa altrui che si ripercuote, che rende indifferenti, la banalità, la neve bianca di Walser unica vera bellezza, la promiscuità, il collegio come simbolo, la tragedia e la commedia soffocati per sempre. Ben pochi hanno reso l’esattezza del collegio svizzero, apoteosi di tutti i collegi, credo nessuno come Jaeggy, che non ululava come Flaubert nel suo collegio di Rouen, ma compiva l’iter della perfetta vittima, nel compiacimento: «Sapevo che Fréderique non avrebbe scritto. Ma perseveravo nel piacere dell’andare in fondo alla tristezza, come a un dispetto. Il piacere del disappunto. Non mi era nuovo. Lo apprezzavo da quando avevo otto anni, interna nel primo collegio, religioso. E forse furono gli anni più belli, pensavo. Gli anni del castigo. Vi è come un’esaltazione, leggera ma costante, negli anni del castigo, nei beati anni del castigo».
Dentro la più atroce espressione della noia che si possa conoscere, nella modulazione della squisitezza formale, la sua esaltazione. Tutto quello che scrive Jaeggy è la più fedele e maggiore rappresentazione, di vera pittrice, che sia stata fatta di un paese così perfetto, da indurre al suicidio o al delitto, Dürrenmatt magistro: per quanto la sua vicinanza sia a Bernhard e a Bachmann, che le riconosce «l’invidiabile primo sguardo per le persone e le cose», l’unicità di quella penna dalla punta affilata come di lama affilata, indicata da Brodskij. Con quegli squillanti gerani violenti, con quelle quietudini da follia e da caccia ferma. Con il doppio dell’incendio e del gelo: il gelo che salva, che protegge: soprattutto la letteratura: un gelo magnifico e crudele: «Ero piena di ammirazione. Avevo freddo». Se vogliamo modulare i gradi della noia con quelli del nichilismo, nella storia dell’iniziazione che è una sorta di dissoluzione o sperdimento in Proleterka, nei doppi mortiferi di fratelli che insistono nei racconti, di amiche la cui metà amorosa, il proprio ammirato doppio – Fréderique - si autodistrugge e tenta di bruciare la casa e la madre, tra follia e santità di disciplina, giungiamo al diapason di un misticismo di sofferenza che Giovanni Pozzi comprese subito, per la ricerca di un assoluto che in Jaeggy corrisponde al parallelo di Angela da Foligno: «L’anima non può godere di una vista più bella in questo mondo che osservare il proprio nulla e starsene nella sua prigione».
Le storie che Jaeggy scrive escono da un mondo che induce all’autodistruzione, ma non del tutto. Le insegue un’ombra, nessuno si salva. Ma si salva la sua presenza in quella maestosa, trattenuta autobiografia trasposta, inidentificabile con le vicende personali, che un libro dopo l’altro ha composto in duplicazioni di sogno, incluse le Vite congetturali di De Quincey, Keats, Schwob, condensate in visioni mentali al calor bianco, tocchi di sonate al pianoforte che l’esecutore insegue senza curarsi di chi ascolta, assorto nel mistero, nell’allucinazione dell’esistenza.
Tento di testimoniare quanto sia preziosa la lettura di un critico che nello straniamento di Jaeggy sa vedere oltre i confini del reale. Credo che la bellezza del capire e amare facendo propria l’esperienza dell’altro, lo scrittore, sia la più rigenerante, per chi fa letteratura: sia dalla parte del cosiddetto scrittore puro, sia da quella del critico, di cui ogni scrittore ha bisogno, pur contenendo in sé stesso quella figura: il proprio fratello, il proprio complice, adiutor: un interlocutore sempre più raro. Per Goethe la categoria del lettore che giudica mentre apprezza, e apprezza mentre giudica, è quella che riesce veramente a ricreare un’opera, ma i suoi membri non sono numerosi. La maestria dello scrivere critico è un atto duplice, un fascino che Matteo Moca assorbe da Fleur Jaeggy, e che restituisce sulla scia della quête per «quella realtà che rischieremmo di morire senza aver conosciuta, e che è semplicemente la nostra vita».
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