martedì 17 aprile 2018
La voce italiana più “black” e internazionale denuncia: «Se c'è una cosa che non capisco e mi fa arrabbiare da sempre è il razzismo. Io ho girato il mondo e ovunque mi trovo a casa»
Il cantante rhythm ’n blues e soul Mario Biondi, qui fotografato a Rio de Janeiro (marcoshermes)

Il cantante rhythm ’n blues e soul Mario Biondi, qui fotografato a Rio de Janeiro (marcoshermes)

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«Basta coi paragoni con Barry White». Ti prende subito in contropiede Mario Biondi (all’anagrafe Mario Ranno), un metro e 97 di talento e personalità, un catanese normanno capace di cantare il soul meglio di un americano con quella voce roca e possente tanto da diventare una star prima all’estero che in Italia. Per debuttare nella sua lingua madre ha si è presentato all’ultimo Festival di Sanremo con la raffinata Rivederti, brano che ora trova la sua giusta collocazione nel nuovo progetto del-l’artista dedicato al Brasile e curato dai produttori delle star Mario Caldato e Kassin. Brasil si intitola, infatti, il godibile album targato Sony che contiene 13 tracce d’autore, in cui Biondi propone brani inediti e rivisitazioni di grandi classici, da Jobim e de Moraes, declinati fra soul, funky e jazz e cantati in italiano, inglese, francese e portoghese in vista anche del tour internazionale.

Mario, come si collega il brano di Sanremo con il Brasile?

«Rivederti è una canzone che nasce dalla vecchia grande scuola di Carlo Alberto Rossi, conosciuto per E se domani, uno che però ha scritto per i più grandi artisti del mondo, da Sarah Vaughan a Nat King Cole. Mi sono ispirato a lui, alle sue melodie e a quelle di quell’epoca, gli anni 50 e 60, in cui molte erano le commistioni fra la musica italiana e quella brasiliana».

Da dove nasce il suo amore per la musica brasiliana?

«Quello del Brasile è un linguaggio e un suono musicale che non può essere paragonato a nulla. Il mio legame col Brasile viene da Al Jarreau che è stato il mio mentore e con cui ho potuto collaborare in studio e dal vivo. Un artista poliedrico capace di vincere 7 Grammy Awards in 4 diversi stili musicali: jazz, soul, mambo e r ’n b. Ma gli incontri fondamentali sono tanti. Un altro grande con cui ho collaborato era il mio amico Pino Daniele: per lui parteciperò al grande concerto Pino è il 7 giugno allo Stadio San Paolo di Napoli. A Ray Charles ho fatto da spalla a Taormina quando avevo 17 anni e facevo piano bar. Nello stesso periodo ho accompagnato Fred Bongusto, Franco Califano e Peppino di Capri che, diciamolo, non ha niente di meno di Ray Charles».

La sua interpretazione in questo disco dà un sapore robusto ai brani dei cantautori brasiliani.

«È una mia caratteristica non ispirare malinconia. Quando canto a volte uso note bassissime che non devono però dare il senso del grave. Anche nel massimo della canzone triste cerco di alleggerire un po’ l’aria. Per esempio in Flor de lis di Djavan mi ha aiutato la versione inglese di Carmen McRae. Non a caso apro l’album con l’allegra Felicidade di Seu George. Io poi ho adattato fra l’italiano e il portoghese di Ivan Lins Deixa eu dizer. L’effetto ricorda un brano brasiliano in genovese di Bruno Lauzi. Adoro il dialetto usato come fece De André in Crêuza de mä, da tempo vorrei registrare un album nel mio dialetto, un disco di folklore siciliano».

Quanto mette di italiano nei suoi brani dal sapore internazionale?

«L’italianità c’è nella scrittura, a volte anche nel modo semplice di scrivere testi che non appartiene più all’inglese e all’americano di oggi, ma a una lingua nostalgica d’un tempo. Chi ama Marvin Gaye, Barry White, Rod Temperton o la scuola del soul bianco americano, trova in me un sound che non fa quasi più nessuno».

È vero che lei ha cominciato a cantare in chiesa da bambino?

«Sì, ed è un di quelle cose che mi sono rimaste dentro. Abitavo a Piano Tavola vicino a Belpasso, in provincia di Catania. Avevo 12 anni, cantavo in chiesa i canti gregoriani, anche nella catanese cattedrale di Sant’Agata. Il nostro parroco ci insegnò 3 o 4 canti, ognuno durava una ventina di minuti e io me li ricordo ancora con tutte le parole. Il canto gregoriano è di una bellezza assoluta, ha una modalità di scrittura unica, mi vien voglia di cantarlo adesso».

Questo ha anche a che fare con la sua fede?

«Con la fede ho un rapporto molto intimo, del quale vado molto geloso e di cui non parlo molto spesso, se nono in momenti importanti. Posso dire che mi affascina il ruolo del Papa, un uomo che è la guida del divino verso le cose positive. Certo è difficile parlarne ai ragazzi di oggi, come i miei figli. Io ci provo attraverso la voce, che è lo strumento trascendentale per antonomasia. Ai miei ragazzi quando vanno a dormire, parlo o canto qualcosa. La voce è un mezzo mediatico, è il primo mass media dell’umanità. Non a caso tutto inizia con il Verbo, la parola».

A proposito di figli, lei ne ha 8. Come fa a gestirli?

«Sei li ho avuti con la prima moglie, una bimba con un’altra compagna e uno, il più piccolo che ha 19 mesi (il più grande ha invece già 21 anni), con la mia attuale compagna con cui vivo a Parma. Comunque cerco di seguire da vicino tutti i miei figli con grande gioia anche se è una lotta continua. Ed è molto difficile in una società come oggi, poiché loro vengono educati secondo certi principi, in un mondo dove la mancanza di rispetto e la volgarità gratuita sono considerati normali. Inoltre mi sconforta questa società che non sostiene la famiglia, non sostiene le coppie nelle loro difficoltà e contribuisce alla distruzione delle famiglie stesse».

E il rapporto con suo padre, anche lui musicista, com’era? Ne ha preso anche il nome d’arte, Biondi...

«Io non capisco il razzismo perché io e mio padre eravamo l’esatto opposto l’uno dell’altro, sotto ogni aspetto, ma eravamo molto uniti. Con mio padre Giuseppe ci esibivamo insieme in concerto per l’Italia. Nel ’98 doveva compiere l’età che ho io oggi: è morto il 19 febbraio a 46 anni in un incidente stradale per andare a suonare a Pordenone. Io avevo 27 anni e mio fratello 8. Mia madre è stata eccezionale, ma, come per Dio, preferisco non parlarne».

Dove vivevate allora?

«A sei vivevo a Reggio Emilia, nonostante fossi nato a Catania. Poi sono tornato ancora in Sicilia. I bambini mi prendevano in giro chiamandomi terrone o marocchino, anche se ero biondo platino con l’occhio azzurro. E per trent’anni è continuata così. All’epoca ero io il magrebino di turno. Ecco un altro motivo per cui il razzismo non lo capisco».

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