martedì 10 dicembre 2024
Il campione olimpico di judo a Sydney 2000 e figlio di Gianni, O Maè di Scampia, si racconta: "Questo sport insegna cadere e a rialzarsi. Portiamolo nelle scuole come educazione civica"
Da sinistra: Pino Maddaloni oro olimpico del judo a Sydney 2000 con il padre Gianni Maddaloni, "O Maè" di Scampia

Da sinistra: Pino Maddaloni oro olimpico del judo a Sydney 2000 con il padre Gianni Maddaloni, "O Maè" di Scampia - undefined

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Se a Napoli parli del “Clan Maddaloni”, allora vuol dire che stai entrando in un universo olimpico che è fatto di sport sano e di massimo rispetto, prima di tutto della legalità. Maddaloni poi, non solo nel titolo del film Rai, protagonista Beppe Fiorello, è anche L’oro di Scampia. E quell’oro brilla tutti i giorni sotto il cielo delle Vele, e non soltanto in bacheca, da quasi 25 anni, da quando il 18 settembre del 2000, Pino, il figlio maggiore di Gianni Maddaloni, per tutti O Maè di Scampia, si mise al collo la medaglia di campione olimpico del judo, categoria 73 kg. Una data storica che Pino “O campione” rivive quotidianamente perché «dietro un percorso sportivo non c’è solo la competizione – spiega - . Prima di tutto ci sono le esperienze, le persone con cui mi sono confrontato e mi confronto girando il mondo, prima da atleta, poi da allenatore e da arbitro internazionale. E da molti di quegli incontri sono nate le amicizie di una vita». A 48 anni, «di cui 44 vissuti sul tatami», Pino Maddaloni si candida alle prossime elezioni del 21 dicembre per il ruolo di consigliere dirigente del settore judo nella squadra del candidato presidente Ezio Gamba (ex dt della società Forza Costanza, ex ct della Nazionale dal 1992 al 2004, ex direttore del centro tecnico africano, general manager della federazione russa, dal 2009 al 2024). «Mi candido per la grande stima che nutro in Ezio Gamba, perché amo il mio Paese e perché credo nel judo, non solo come disciplina sportiva, ma come modello educativo da introdurre nelle scuole. Praticare il judo vuol dire fare tesoro di una serie di valori che sono delle pietre preziose da incastonare dentro quella medaglia dal valore inestimabile che è l’educazione civica». Quando parla, Pino ha lo stesso tono pacato e il carisma di suo padre, O Maè.

«Io dico sempre che ho avuto due fortune, quella di avere Gianni Maddaloni come mio primo maestro – il secondo è l’ex dt della Nazionale, Vittorio Romanacci - e anche come genitore. La sua prima palestra fu una vecchia fabbrica di lampadari a Miano dove insegnava judo a me e agli altri bambini. Mamma era la segretaria, ma tutti facevamo un po’ tutto, comprese le pulizie». Poi, subito dopo l’oro di Sydney la Star Judo Club si è spostata a Scampia, diventando il simbolo della rinascita. «Prima che entrasse nel palazzetto a Sydney papà fece un voto, disse: “Dio mio, se Pino vincerà l’oro dedicherò la la mia vita alla gente del mio quartiere”. Io guardai al Cielo e dissi: io oggi non cado. Feci cinque incontri senza neppure subire un punto. Vinsi l’oro, il Cielo mi aveva ascoltato e mio padre doveva onorare il voto, aprire quella palestra che a Scampia mancava assieme a tante altre cose... Ma in tutti questi anni alla Star Judo sono stati realizzati tanti progetti e il messaggio più importante che abbiamo lanciato è: anche con poco si può comunque fare tanto». La palestra di Scampia è un luogo di inclusione e di formazione per tante giovani vite fragili strappate alla strada, grazie a quei valori fondamentali come il rispetto e l’educazione che i Maddaloni si tramandano di padre in figlio divulgandoli ovunque vadano. «Nel judo il 5% è fatto da agonisti che credono nel sogno olimpico, il 95% lo pratica in primis come strumento educativo e di formazione . Quando ho iniziato il mio obiettivo non era quello di vincere l’oro olimpico ma seguire mio padre e quindi il mio maestro di vita. Ieri come oggi, i ragazzi hanno un grande bisogno di figure di riferimento, di buoni esempi quotidiani e di storie vere dalle quali apprendere e ispirarsi. Il judo insegna l’arte della pazienza e soprattutto la filosofia dei Maddaloni è che non si perde mai: quando non vinci, impari». Pino molto di quello che ha imparato lo ha appreso da questo sport che considera «uno stile di vita. La prima cosa che il judo insegna a un bambino è il saper cadere a terra. Solo se apprendi bene come cadere, allora saprai anche rialzarti. E in queste due fasi sta il senso dell’esistenza. Perciò se mi candido alle prossime elezioni federali è solo per rafforzare e migliorare questo movimento su dei valori esistenziali che già possiede e che nessuno potrà mai toccare».

Questi valori però forse si apprendono meglio quando si parte da realtà svantaggiate come le periferie dimenticate di un Messico napoletano? «Io ai mie ragazzi dico sempre: dovete essere bravi a trasformare i punti deboli nei vostri punti di forza. Adesso si parla ogni giorno di bullismo e cyberbullismo, ma quando io avevo 10-11 anni e i cellulari praticamente non esistevano, qui a Scampia prendevo mazzate un giorno sì e l’altro pure, solo perché i bulli del quartiere mi vedevano andare in palestra e non gli stava bene... Mi strappavano la borsa, mi sfottevano e alla fine erano botte, perché io ero da solo contro tanti. Questo avrebbe dovuto scoraggiarmi e farmi smettere e invece mi ha reso più forte che mai. Quando andavo in gara la tensione che provavo per strada non la sentivo perché ero io contro un mio avversario della stessa età e di pari peso, e sul tatami c’era anche un arbitro che faceva rispettare le regole… La vera vittoria è quando ancora oggi incontro molti di quegli ex bulli che mi dicono scusandosi: “Tu Pino, a differenza nostra avevi capito tutto fin da piccolo, noi ti prendevamo in giro e abbiamo sbagliato, ora siamo orgogliosi di te e dei Maddaloni». Il Clan dello sport e della legalità che si occupa di tutti a partire dagli ultimi: i figli con genitori in carcere e anche degli stessi padri detenuti di Scampia con il programma di messa alla prova in cui sono seguiti direttamente da O Maè. Così come Pino da direttore tecnico delle Fiamme Oro dopo aver allenato i non vedenti e portato il judo nelle carceri minorili ora segue le palestre dei quartieri più a rischio dell’area metropolitana di Napoli. «Con le Fiamme Oro abbiamo aperto una palestra a Caivano e Pizzo Falcone. Al Rione Sanità, il judo, come l’arte e la musica, ha cambiato il volto del quartiere, lì è stata aperta una struttura sportiva in cui i bambini praticano gratis anche il pugilato. E quando finiscono l’allenamento frequentano il doposcuola». Ma la vera scuola per Pino Maddaloni è quella che saprà portare il judo in classe.

«Quella sarebbe la scuola modello, in cui dobbiamo credere e puntare. Tra i banchi porteremmo quella vera filosofia olimpica che non riconosco nel “ciò che conta è partecipare”. Per me quello che conta è vincere, ma vincere vuol dire dare tutto te stesso e migliorarti continuamente, perché poi questo darà dei risultati a scuola, nello sport e soprattutto nella vita di tutti i giorni. Io ho vinto un oro nel 2000 ma se il mio spirito è ancora quello del campione olimpico è perché, pur con i miei errori, non ho mai smesso un giorno di allenarmi per migliorarmi, prima di tutto come uomo. Ai giovani perciò chiedo di non avere mai paura nell’accettare la sfida. Ogni sfida ha il suo lieto fine, che è l’esperienza. Quel Cielo in cui credo è sempre sopra e dentro di me. Allenando i ragazzi più difficili, ho capito che nessun bambino nasce cattivo e chi crescendo è finito nel vicolo cieco della criminalità è stato semplicemente un bambino che non ha avuto la fortuna di incontrare dei maestri. Ma c’è sempre un tempo per cambiare. Basta avere il coraggio di dire al mondo una sola frase: ho sbagliato. Nello sport sbagliare spesso comporta la sconfitta. Ma perdere non è un male, perché la sconfitta ti offre l’opportunità di imparare dal tuo errore. I miei allievi questo lo sanno e il mio motto deve essere sempre anche il loro: “Nessun alibi, combatti!”. L’ho coniato ricordandomi di quella volta che il direttore della Gazzetta dello Sport Candido Cannavò, di ritorno dalle Olimpiadi di Pechino 2008 mi volle premiare a Monza. Io gli dissi: Direttore ma alle Olimpiadi, che poi furono le mie ultime, non ho mica vinto la medaglia. Però lui volle premiarmi lo stesso, perché era rimasto colpito dall’intervista che rilasciai subito dopo l’eliminazione. C’erano gli stessi giornalisti di Sydney ad aspettarmi, erano tanti, e io me ne stavo scappando via per la rabbia della sconfitta… Poi però mi sono detto: Pino che stai facendo, scappi davanti alle tue responsabilità? Allora sono tornato indietro e alla prima domanda, come mai avessi perso risposi: perché oggi ho incontrato degli avversari più forti di me. Le domande finirono lì... Da allora, davanti ad ogni sconfitta il ragazzo di ieri dice al Pino di oggi: nessun alibi, combatti!».

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