venerdì 30 maggio 2025
Lo storico Bettalli all'evento èStoria di Gorizia: l'Europa ha creato un rapporto di filiazione tra noi e i greci. Eppure la democrazia ateniese era il privilegio di un'élite
Ma siamo sicuri di essere davvero figli di Atene?

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Atene, la città che sperimentò la perfezione e codificò l’armonia, che inventò la democrazia e il pensiero filosofico, che difese la grecità dai barbari (i balbuzienti) e fondò la nostra civiltà. Tutto questo nell’immaginario collettivo è Atene, la città degli dèi. Ma l’Atene quotidiana, caotica e sovrappopolata, era davvero così? Il volume Atene, vivere in una città antica (Carocci, pagine 342, euro 35,00) risponde al quesito mettendo in pista tredici autori, docenti di storia greca nelle università d’Europa, che affrontano i diversi aspetti di una società per certi versi a noi sconosciuta. «Ognuna di queste immagini ha in sé qualcosa di vero, ma tutte leggono l’Antico con gli occhi dell’Occidente europeo», avvertono i curatori Marco Bettalli e Maurizio Giangiulio (il primo insegna Storia greca all’università di Siena, il secondo all’università di Trento e alla Scuola archeologica italiana di Atene), «creando rapporti di filiazione tra noi e i Greci che non reggono alla prova della complessità storica. Questo libro non costruisce miti culturali ma nemmeno li smantella». Sono proprio Bettalli e Giangiulio a presentare oggi il volume a èStoria, il festival di Gorizia quest’anno dedicato al tema “Città”.

Professor Bettalli, che aspetto aveva Atene? Da chi era abitata?

«Dobbiamo immaginarla brulicante di umanità e attività commerciali, simile a un’odierna città mediorientale. In età classica era la più vasta del Mediterraneo e una delle più grandi al mondo, solo Roma, più tardi, e Alessandria d’Egitto la supereranno. Rispetto all’idea di città che abbiamo oggi, c’era il centro urbano vero e proprio, ma poi la maggioranza degli ateniesi viveva sparsa in cento e più villaggi legati alla campagna, ognuno con il proprio nome (Acarne, Maratona, ecc.) ma tutti parte di Atene. Gli abitanti dei villaggi erano cittadini ateniesi a tutti gli effetti, tant’è che potevano partecipare all’Assemblea e votare le decisioni della politica cittadina. In totale parliamo dunque di 400mila residenti, ma di questi solo 60mila erano “cittadini”, tenendo conto che circa 200mila erano schiavi».

Anche la democrazia ateniese era diversa da come la immaginiamo noi oggi?

«Molto diversa. Intanto era una democrazia diretta, non rappresentativa come la nostra. In secondo luogo, contrariamente a ciò che si pensa, la democrazia ad Atene era privilegio di una élite, i 60mila veri “cittadini”, ovvero solo i maschi, liberi e maggiorenni. Centinaia di migliaia di persone non avevano dunque accesso ai diritti civili: le donne, la marea di schiavi, gli stranieri. Però è vero che la democrazia diretta era molto operativa: i cittadini prendevano le decisioni riunendosi nella famosa Pnice, la collina a ovest dell’Acropoli dove si teneva l’Assemblea, ma dove c’era posto per al massimo seimila persone, dunque un decimo degli aventi diritto. L’Assemblea si teneva una quarantina di volte l’anno ed era libera: i seimila che riuscivano a entrare ascoltavano per ore gli oratori e poi votavano le proposte… Pian piano però si era creata una casta di gente specializzata nel parlare, tra l’altro all’aperto, senza microfoni… certamente un contadino o un artigiano erano tagliati fuori, tutt’al più potevano fischiare o applaudire, dunque l’élite dei 60mila, già ridotta a seimila presenti, era ulteriormente decimata, e l’oratore più potente si organizzava con la claque che applaudiva e fischiava al momento giusto per orientare il consenso. Diciamo che chi si imponeva in politica in genere era ricco… altrimenti lo diventava, e la corruzione era estremamente diffusa nella politica ateniese».

Anche votare per alzata di mano non doveva essere semplice.

«Non esisteva un conteggio specifico, c’erano dei “magistrati eletti” – persone comuni che si alternavano ogni volta – che a un certo punto decidevano quale proposta aveva vinto. Altra curiosità è che nei votanti c’era una netta tendenza all’unanimismo e questo si spiega facilmente: se il voto è segreto ognuno vota sinceramente, ma quando il voto è palese, prima di alzare la mano ci si guarda intorno, si aspetta di vedere la maggioranza e ci si omologa al più forte. È lo stesso Tucidide, parlando di Pericle, a scrivere che la democrazia ateniese in realtà si traduceva nel governo del primo tra i cittadini. Sa dove invece si esercitava davvero il potere del popolo? Nei tribunali: Atene era una democrazia giudiziaria, lì veniva processato e spesso condannato chiunque avesse rivestito qualsiasi carica, anche ai vertici, e il tribunale era davvero il potere al popolo per eccellenza, qui il demos controllava ciò che era stato detto e fatto in Assemblea».

Come avvenivano i processi?

«Il giudizio toccava a 501 persone, numero dispari per avere una maggioranza, in casi eccezionali anche a 1.001. La giuria era sorteggiata tra i cittadini comuni, naturalmente maschi, sopra i 30 anni, che erano pagati e votavano mettendo in una cesta il gettone – quello cavo o quello pieno – per l’innocenza o la colpevolezza. Qui il voto era segreto, non c’era modo di pilotarlo, è l’esempio di tribunale popolare forse più grande della storia».

Chissà quante vendette…

«È vero, lo scrive anche Aristofane nella commedia Le vespe, dove il vecchio protagonista ironizza, “non sai quanto ci divertiamo, subiamo tentativi di corruzione, assicuriamo il nostro appoggio e poi votiamo come ci pare”. Nella letteratura che ci è arrivata, ricchi e potenti odiavano la democrazia, ma non si scagliavano contro l’Assemblea bensì contro il tribunale».

Con quali pene si punivano i reati?

«Le pene erano tre, la multa o le due forme di “espulsione”, che erano l’esilio e la morte. La detenzione in carcere non era contemplata, per l’ateniese non era importante che il reo venisse punito, ma che non rimanesse nella società. Per questo succedeva spesso nell’indifferenza generale che il condannato a morte se ne scappasse in esilio, quel che contava era che sparisse. Nel famoso dialogo platonico, Fedone, si raccontano le ultime ore di Socrate, condannato a morte con 281 voti contro 220 a suo favore, e Platone riferisce che Socrate avrebbe potuto facilmente scappare ma si è rifiutato in obbedienza alle leggi, accettando di bere la cicuta. Tra l’altro da innocente».

Parliamo della donna ateniese. Nella formula matrimoniale il padre della sposa dice: «Ti concedo mia figlia per la riproduzione».

«Era una società fortemente maschilista, la donna non aveva alcun diritto civico e se era di famiglia ricca era particolarmente sfortunata. Infatti le mogli di contadini o artigiani uscivano, vendevano al mercato, collaboravano alle attività, ma le donne dell’éliteerano recluse in casa per garantire la legittimità della progenie. In una sua orazione Lisia racconta di un uomo che circuisce una donna dell’alta società in casa sua mentre il marito è assente, e la donna non viene mai accusata, solo l’uomo rischia la pena di morte, ma sa perché? Perché è considerata un essere che ha poche capacità decisionali. È la padrona, la regina, ma del focolare in senso stretto, intanto l’uomo fuori si occupa degli affari, della politica e della guerra».

Come si spiega che la schiavitù non costituisse un problema morale?

«In tutta la letteratura antica, anche greca e romana, non c’è una sola parola contro la schiavitù, che era pienamente accettata da chiunque perché “gli esseri umani non sono tutti uguali”, o capiamo questo o non riusciamo a studiare il mondo antico. C’erano regioni, come la Tracia o la Macedonia, che erano zone di rifornimento di schiavi con mercati fiorentissimi, ma si diventava schiavi anche come prigionieri di guerra, o rapiti dai pirati, o per debiti. In epoca romana nell’isola di Delo, nelle Cicladi, si scambiavano diecimila schiavi al giorno. Poi si andava a fortuna, gli schiavi domestici stavano relativamente bene, i più colti facevano addirittura i pedagoghi nelle famiglie ricche, quelli delle miniere vivevano in condizioni intollerabili. C’era la possibilità di tornare liberi e scalare la società, ma ad Atene era molto più raro che a Roma».

Anche la guerra, a differenza di oggi, era un valore.

«Per il singolo era una disgrazia, esisteva la “renitenza alla leva”, per così dire, c’erano i disertori, si ricorreva anche alle bustarelle per non dover combattere. Ma sul piano pubblico cambia tutto: anche la guerra era qualcosa di naturale e ineluttabile. Mentre oggi anche un generale di corpo d’armata non dichiarerà mai che la guerra è bella, ad Atene l’uomo vero era quello in armi, tant’è che a combattere era solo il cittadino, non partiva lo schiavo. In un’orazione di Eschilo un oratore si scusa per aver parlato di pace, era qualcosa di disdicevole, poco virile, oggi invece usiamo eufemismi, ad esempio Putin parla di “operazione speciale”: sia guerra che schiavitù esistono tuttora, ma cerchiamo di chiamarle in altro modo».

L’Occidente è erede della cultura classica? Nonostante queste differenze?

«Dal mondo antico, pur così lontano da noi, ci restano eredità gigantesche. Prima di tutto la democrazia, nonostante i limiti che ho già esposto: non è cosa da poco il fatto che un Pericle o un Alcibiade abbiano lo stesso voto del ciabattino, un voto vale uno, tutti alla pari, è la prima volta che accade nel mondo. E poi abbiamo ereditato lo studio del passato, da Tucidide hanno attinto gli storici nei millenni successivi. E il pensiero: Socrate e Platone hanno fatto l’indice della civiltà occidentale. Ma sopra ad ogni cosa io metto il teatro, la commedia e la tragedia, una straordinaria riflessione su cosa è l’essere umano. Gli ateniesi stavano a teatro dieci ore, assistevano a tre o quattro tragedie consecutive, dobbiamo stupirci di questa gigantesca seduta di psicologia collettiva, è qualcosa per noi incredibile. Chiedersi chi siamo e chiederselo tutti insieme è talmente eccezionale che questa, per me, è l’eredità più preziosa di Atene».

Perché tutto ciò è nato proprio lì, in quell’angolino periferico della Penisola Balcanica?

«Nell’800 si parlava di miracolo greco come fosse nato improvvisamente e dal nulla. Sciocchezze, tutto è trasmissione, e la Grecia ha beneficiato dei rapporti con le civiltà orientali, che non erano migliori ma erano molto più antiche: ai tempi di Iliade e Odissea la civiltà egizia o quella mesopotamica studiavano le cose da millenni, e i greci le hanno recepite e trasformate, la scintilla del genio ateniese, insomma, non è stata inventare da zero ma aver accolto il meglio dagli altri. Le cose migliori degli esseri umani nascono dai contatti, la storia è sempre una vicenda di trasfusioni e incontri».

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