venerdì 31 marzo 2023
Un volume raccoglie gli scritti del pensatore tedesco dedicati alle sfide del futuro Il timore che la tecnica diventi una «gabbia d’acciaio» e la necessità di un’etica del limite
Il filosofo tedesco Karl Löwith (1897-1973)

Il filosofo tedesco Karl Löwith (1897-1973) - archivio

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Il filosofo tedesco Karl Löwith (1897-1973) fu allievo di Husserl e Heidegger, “il più dotato” secondo Hans Jonas. Combattente sul fronte della Grande Guerra e fatto prigioniero in Italia, compì gli studi prima a Monaco poi a Friburgo, deluso dal suo maestro che aveva aderito al nazismo, tanto da esibire senza problemi, in pubblico e in privato, il distintivo del partito. Löwith invece nel 1933 fu costretto ad abbandonare l’insegnamento all’università di Marburgo per le sue origini ebraiche, andando in Italia, Giappone e infine negli Stati Uniti. Avrebbe fatto ritorno nel 1952 in Germania, dove avrebbe insegnato ad Heidelberg.

La sua opera più famosa è Significato e fine della storia, uscita in America nel 1949 - e in Italia nel 1963 dalle edizioni di Comunità, poi ripubblicata dal Saggiatore -, ove giunge a questa conclusione: « L’impossibilità di elaborare un sistema progressivo della storia profana sulla base della fede ha la contropartita nell’impossibilità di tracciare un piano significativo della storia mediante la ragione. Ciò è confermato dal senso comune: infatti chi oserebbe pronunciare un giudizio definitivo sullo scopo e sul senso degli eventi contemporanei? ». In poche parole egli prende atto del fallimento non solo della teodicea, ma pure del tentativo di concepire la storia come un progresso lineare verso il bene e non ritiene possibile pervenire a una visione più profonda degli eventi storici, che possa tenere insieme trascendenza e immanenza.

Dopo la tragedia delle due guerre mondiali che avevano insanguinato l’Europa, un pessimismo di fondo pare prevalere in lui. Ma lo sforzo di Löwith è apprezzabile per un’altra conclusione a cui giunge a partire dalla consapevolezza che l’idea di progresso rischia di arenarsi nella “gabbia d’acciaio” della tecnica: la necessità di fondare «un’etica del limite cosmologicamente fondata». Tutti temi che tornano nel volume Il cosmo e le sfide della storia appena pubblicato da Donzelli a cura di Orlando Franceschelli (pagine 160, euro 19,00), libro che raccoglie vari saggi scritti nella fase della piena maturità, con un’appendice in cui riflette sul suo rapporto con il nostro Paese, in occasione del conferimento della laurea honoris causa da parte dell’ateneo di Bologna. La questione del progresso e della sua possibilità si riaffaccia costantemente: « La domanda – si chiede a un certo punto – è: per noi c’è ancora un’istanza che possa costituire un limite al progresso in sé illimitato, oppure è inevitabile che l’uomo faccia tutto ciò che può fare? C’è ancora una misura della libertà per tutto e per nulla?».

Critico dell’idea di progresso, Löwith non si fa però cantore del disfattismo, come emerge chiaramente dalle pagine dedicate a Teilhard de Chardin, il grande paleontologo francese morto nel 1955, ingiustamente accusato di panteismo e di voler conciliare fede cristiana e teoria dell’evoluzione esaltando sempre e comunque l’idea di progresso. Ma in un’intervista del 1951 egli spiegò: «Dapprima, mi hanno considerato un ottimista o un utopista beato, un sognatore di uno stato d’euforia umana in un qualche futuro. Poi, cosa più grave ancora, si va ripetendo che sono il profeta di un universo che distrugge i valori individuali. In verità, la mia più grande preoccupazione è stata quella di affermare che l’unione fra l’uomo e Dio, fra l’uomo e l’altro uomo, fra l’uomo e il cosmo non annulla mai la differenza. Io mi trovo agli antipodi sia di un totalitarismo sociale che porta al termitaio sia di un panteismo induizzante che conduce ad una fusione e un’identificazione fra gli esseri».

Parole assai chiare che Löwith mostra di capire bene. Lo rileva Franceschelli: « Löwith evidenzia con approvazione la sensibilità mostrata dal gesuita e scienziato francese per la stupefacente realtà e complessità del cosmo e del fenomeno umano». Il principio antropico esaltato da Teilhard fa dell’uomo il centro dell’universo e di un progetto divino che, come nella teologia paolina, conduce tutta la creazione verso un unico centro ove tutto è destinato a convergere, il Cristo cosmico o punto omega. Qui Löwith si dimostra più problematico, non seguendo più la tensione del gesuita che approda alla mistica, e arriva ad affermare: « La fede di Teilhard nella crescente potenza dello spirito della Persona nel mondo era così forte – o cieca? – fino al punto che egli credeva di poter spiegare, nel senso positivo di unificazione, spiritualizzazione e persino di rievangelizzazione, anche gli aspetti massificanti e distruttivi della tendenza universale a un totale dominio della Terra a opera di un’umanità motorizzata e standardizzata».

Sostanzialmente il filosofo tedesco, pur ammirando la prospettiva chiaramente cristocentrica della visione teilhardiana, non riesce a seguirlo fino in fondo nell’ottimismo sullo sviluppo del cosmo e dell’umanità. Ma il dialogo a distanza che si svolge in queste pagine è ancor oggi un esempio fecondo, come sostiene ancora Franceschelli, di «un confronto alto e costruttivo tra credenti e non credenti».

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