venerdì 19 gennaio 2018
A Recanati una mostra mette a confronto il pittore veneto e il poeta. in entrambi c'è l’imitazione del vero, la mobilità delle scelte stilistiche, il ritratto come strumento di conoscenza
Lorenzo Lotto, Ritratto di giovane gentiluomo

Lorenzo Lotto, Ritratto di giovane gentiluomo

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Un precedente, a volerlo trovare, risale al 2000, e cioè all’edizione tematica dello Zibaldone di Giacomo Leopardi curata da Fabiana Cacciapuoti per Donzelli: sei volumetti distinti per materia, ciascuno dei quali portava in copertina un particolare dei dipinti di Lorenzo Lotto. Accostamento non immotivato, se si considera che nelle Marche, e in particolare fra Recanati e Loreto, si svolge una parte importante della vicenda artistica e umana del pittore veneziano. Ne sono testimonianza i capolavori conservati presso il Tesoro della Santa Casa e, nella fattispecie, a Villa Colloredo Mels, il museo civico di Recanati che fino all’8 aprile ospita una rassegna di indubbia suggestione, ideata da Vittorio Sgarbi sulla base di una rete di convergenze e coincidenze che vanno al di là del pur indicativo dato biografico. Lorenzo Lotto dialoga con Giacomo Leopardi, dunque, e non soltanto perché l’artista muore settantaseienne a Loreto nel 1556 e il poeta nasce nella vicina Recanati nel 1798, né perché entrambi si ritrovano a muoversi tra una città e l’altra di un’Italia plurale e vivacissima, anche se non abbastanza generosa di riconoscimenti nei loro confronti.

L’intuizione su cui la mostra si fonda riguarda la fortuna relativamente tardiva dei due: la fama di Leopardi si consolida definitivamente solo negli ultimi anni dell’Ottocento, per il tramite decisivo di Giosuè Carducci, mentre si deve a Bernard Berenson la riscoperta della grandezza di Lotto, affidata alle pagine di una famosa monografia del 1895. Siamo, osserva Sgarbi nel video che introduce la visita alla mostra, nel clima che prepara l’avvento della psicoanalisi, forse il più adatto per apprezzare il particolare sentimento interiore – qualcosa in più della malinconia, qualcosa in meno della tristezza – che accomuna gli sguardi di Lotto e di Leopardi. Ci sarebbe perfino un riscontro documentale, costituito dal bozzetto della Trasfigurazione lottesca presente in casa Leopardi fin dai tempi di Giacomo e nel quale si è cercato di riconoscere, con eccesso d’entusiasmo, un’eventuale fonte dell’Infinito. Nell’opera di Leopardi, in realtà, il nome di Lotto non ricorre mai (circostanza comprensibile, se si considera l’oblio in cui il pittore era caduto), ma l’apparente contraddizione ne nasconde un’altra ancor più rivelatrice. In poesia, infatti, quella di Giacomo è spesso immaginazione di immagini, in una linea che dai versi poco più che infantili sulla «dipinta gabbia» in cui viene educato l’«amabile augelletto» arriva fino all’imponente strutturazione paesaggistica della Ginestra passando, tra l’altro, per l’ekfrasis (descrizione di immagine, appunto) di Sopra il ritratto di una bella donna scolpito nel monumento sepolcrale della medesima. Alle arti figurative, tuttavia, Leopardi sembra dedicare pochissima attenzione all’interno di una riflessione estetica che predilige semmai l’accostamento tra letteratura e musica. Con un’eccezione più che notevole, però, dalla quale è opportuno lasciarsi guidare mentre si percorrono le stanze della mostra recanatese. Nello Zibaldone, a più riprese, Leopardi si sofferma sullo statuto del ritratto, sottolineando il dispositivo misterioso per cui «quella stessa persona ci fa più effetto dipinta che reale».

È un’osservazione centrale nell’elaborazione dell’idea leopardiana di bello, fondata sull’imitazione del vero attraverso un processo che dall’«assuefazione» (la ricezione, più o meno passiva, di un modello preesistente) dovrebbe condurre alla «significazione». Decisivo, in questo senso, è il rifiuto di «principi fissi ed eterni» a favore di una «convenzienza» che contrappone «l’eleganza reale, effettiva e concreta» all’«eleganza astratta» o di maniera. La mobilità delle soluzioni stilistiche è, com’è noto, una caratteristica di Lotto, ben riscontrabile anche nelle opere appartenenti al patrimonio di Villa Colloredo Mels, che grazie alla mostra godono ora di una più efficace sistemazione: il giovanile Polittico di san Domenico (colpisce, nella cimasa, l’esuberanza del broccato sfuggito dalla veste della Maddalena durante il compianto del Cristo morto), la celebre e sempre sfuggente Annunciazione (dove agisce il contrasto, leopardiano ante litteram, fra la delicatezza del paesaggio e la postura brusca e quasi scostante delle figure), il piccolo, prezioso San Giacomo Maggiore e l’impressionante Trasfigurazione, nella quale il corpo a corpo tra visione celeste e rudezza terrestre appare già contrassegnata da una forte inquietudine spirituale.

Ma è nei ritratti provenienti da prestiti diversi che il precoce leopardismo di Lotto si più evidente. In questo senso, il pezzo forte della mostra è certamente il Ritratto di giovane delle Gallerie dell’Accademia di Venezia, con la sua sovrabbondanza di indizi – le mani poggiate sul libro aperto, le lettere sparse sul tavolo fra monili e petali di rosa, l’allusione sensuale dello scialle femminile, l’arditezza araldica della salamandra – è sopravanzata dalla luminosità di un volto nel quale non si è tentati di cogliere una somiglianza con lo stesso Leopardi. E se nelGentiluomo con lettera l’ideatore Sgarbi invita a individuare un antesignano della spavalderia che fu propria dell’ultimo amico di Leopardi, Antonio Ranieri, ecco che il Ritratto di Ludovico Grazioli (Fondazione Cavallini Sgarbi) si presta a essere riletto in una dimensione di contrastata classicità, la stessa che ritroviamo nella Caduta dei titani (collezione Francesco Micheli), nella quale si fa più serrata la competizione fra eredità mitologica e tradizione cristiana. Dissidio, anche questo, ricorrente nella poetica di Leopardi, come ricorda – nell’essenziale e utile sezione composta dai documenti messi a disposizione dal Comune di Recanati – il manoscritto del Saggio sopra gli errori popolari degli antichi.

Anche qui, nella sala dedicata a Giacomo e alla sua famiglia, i ritratti abbondano, in massima parte generati dalla matrice della maschera funeraria del poeta. Tra le rarità spicca la scelta di brani dello Zibaldone stampata in pochissimi esemplari nel 1897, quando la rinascita di Lotto era appena cominciata. A proposito: la frase che fa da introduzione alla mostra, «Solo, senza fidel governo et molto inquieto de la mente», non sfigurerebbe nel brogliaccio leopardiano, ma riecheggia il Libro di spese diverse di Lotto, magmatico coacervo di partita doppia e confessione di sé. Una conferma, insomma, di come il dialogo tra Lorenzo e Giacomo sia appena cominciato. Le conferenze che integrano la mostra di Recanati e il catalogo in cui i risultati di questi incontri sono destinati a confluire aiuteranno senz’altro a capire di più e meglio.
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