domenica 3 febbraio 2019
Eppure quei celebri versi rimangono ancora attuali: un poeta, uno scrittore e un critico letterario si cimentano con la sua iconica capacità di centrare il cuore dell’inquietudine umana
Giacomo Leopardi (1798-1837)

Giacomo Leopardi (1798-1837)

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Tra i nostri grandi classici, Giacomo Leopardi continua a essere uno di quelli che sollecitano continue riflessioni, indagini e approfondimenti. Non solo in senso critico, storico-letterario o filologico (ciò accade, evidentemente, per tanti autori del nostro canone), ma anche sul piano di una lettura personale ed emozionale, per cui l’autore diventa - per chi scrive - il punto di partenza di un’indagine sul sé e sulle questioni che gli stanno a cuore. Mi sembra che, in questi ultimi anni, Leopardi abbia condiviso pienamente tale destino soltanto con altri due 'colleghi': Dante e Pasolini. Perché? Le ragioni sono molteplici, legate alla vita e insieme all’opera di Leopardi, o, meglio, ai modi in cui l’opera si lega strettamente alla vita, tanto che le due componenti vanno a costituire un’entità inscindibile (come del resto, guarda caso, è anche a proposito degli altri due autori citati). È qualcosa che non si può risolvere, semplicemente, nella formula delle 'componenti autobiografiche' sulla creazione artistica: si tratta di un nesso ben più profondo e costitutivo. Nel caso di Leopardi, poi, altro motivo della sua 'persistenza' è la sua modernità, tanto che i programmi liceali già da diverso tempo ne collocano la lettura all’inizio del quinto anno, dunque in una posizione staccata dalla trattazione della produzione letteraria del primo Ottocento.

Si dice che la grandezza di un classico si misuri sulla sua tendenza a suscitare sempre nuove letture e interpretazioni. E anche qui Leopardi la fa da padrone, con analisi e affondi critici che provengono da autori molto diversi per formazione, interessi culturali e orizzonti ideologici. Tutti però concordi nell’indicare nella tensione verso l’infinito una delle risorse più vitali dell’opera di Leopardi. Il quale scriveva: «Dove trova piacere l’anima aborre che sia finito». Metteva così a fuoco quella tensione alla felicità che connota l’essere umano, pur riconoscendo, altrove, l’«impossibilità» di infinito, stanti i limiti delle nostre povere facoltà. È Davide Rondoni a ricordare quella frase di Leopardi nel suo libro E come il vento. L’Infinito, lo strano bacio del poeta al mondo (Fazi, pagine 170, eu- ro 15), che esce nel bicentenario (18192019) della poesia più nota della letteratura italiana. È un saggio appassionato, un corpo a corpo col fuoco della poesia (e della vita), a partire dal testo più celebre del Recanatese, quello che tutti abbiamo imparato a memoria a scuola, e che, forse per questo, non abbiamo davvero capito e amato. Il discorso fornisce a Rondoni l’occasione per un affondo contro la 'pratica didattica' del testo letterario, insomma contro il modus operandi dei professori: «Dicono stupidaggini, per imbrigliare il mite gigante di questo testo. Per chiudere con le palpebre ammezzate della loro noia gli occhi di diaspro del testo che mormora: infinito... Per distrarre il ragazzo, per ingannarlo, per farlo 'diventare' come loro». Invece Rondoni la poesia vuole 'sentirla', e farla sentire. Per questo intreccia il racconto e la spiegazione dei versi leopardiani a ricordi e riflessioni personali, alla propria storia familiare, alle vicende della vita, ai propri versi, facendoli reagire con quelli di Leopardi: «Verrebbe da dire: me la sono cavata... / ma non è mai giusto da dire / se l’infinito un giorno / e molti giorni in una vita / ti viene a visitare...».

L’invito dell’autore, insomma, è quello a educarci a trasformare un oggetto di studio in un oggetto di godimento, per sperimentare fino in fondo quel «piacere del testo» di cui parlava Roland Barthes. Similmente a Rondoni, anche Enrico Palandri, in un saggio dal titolo Verso l’Infinito (Bompiani, pagine 112, euro 12), ha cercato «di non capire troppo Leopardi, di lasciarlo vivere e parlare e se mai di girargli intorno». E aggiunge: «Riempire l’altro di quello che pensiamo è inevitabile quando gli si dedica un libro, ma L’infinito è per coloro che leggono questa poesia l’occasione per mettersi in ascolto di un sapere che viene al mondo». Leopardi ha portato nella vita di Palandri domande e osservazioni a cui lo scrittore si sforza di non offrire risposte definitive, per lasciare aperto lo spazio verso l’infinito, che è lo stimolo più potente della sua parola poetica. Sul piano politico-civile, Palandri coglie tutta l’attualità di Leopardi nel suo poter essere una sorta di reagente, tramite la vicenda personale e gli scritti, per affrontare nazionalismi, sovranismi, xenofobia, razzismo, vale a dire alcuni dei mali peggiori che oggi affliggono la nostra società. Egli si colloca infatti in un momento di passaggio epocale, tra formazione illuministica e adesione al Romanticismo, un movimento che poneva al centro del dibattito culturale il concetto di nazione e l’idea di un’identità magari da contrapporre a quelle degli altri.

Anche per Franco D’Intino, che ha scritto per Quodlibet un denso e originale saggio dal titolo La caduta e il ritorno. Cinque movimenti dell’immaginario romantico leopardiano (pagine 368, euro 24), la dimensione dell’infinito è centrale per qualsiasi approfondimento di Leopardi. L’aspirazione a raggiungerlo (ma forse è per definizione che l’infinito non può essere 'raggiunto') spesso risulta frustrata, eppure ciò non toglie il suo valore dinamico e progressivo. Ciò in tutti gli autori romantici, indipendentemente dai punti che li diversificano: «Non importa che alcuni tra i romantici fossero credenti (o recuperassero la fede), e altri atei convinti; alcuni mistici, altri illuministi incerti, spaesati, pentiti; alcuni rivoluzionari, altri tradizionalisti e conservatori. In comune hanno il desiderio di comprendere il 'tutto', ma sono ben consapevoli del fallimento che li attende, o delle strade nuove, incognite, che debbono imboccare e percorrere». Leggendo Leopardi nel contesto del Romanticismo europeo (mettendolo in dialogo soprattutto con gli inglesi e i tedeschi, Coleridge, Novalis, Goethe, ma anche Rousseau), D’intino evidenzia «la sua pulsione verso la sperimentazione e l’incompiutezza » e «la tensione, persino distruttiva, verso l’incompiu-to/ infinito/ inconcludibile che si scava entro un senso della 'forma' come faticosa e combattuta conquista». E assume un’altra delle più celebri poesie di Leopardi, A Silvia, come rivelatrice dell’interiorità più profonda dell’autore. Gettando un po’ di luce sul nucleo misterioso dell’opera leopardiana.

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