venerdì 25 marzo 2022
Nata nel 1855, si laurea a 26 anni e a 28 ottiene l’abilitazione ma le è impedito di esercitare perché donna con una serie di abusi giuridici. La legge apposita arriva solo nel 1919
Lidia Poët

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Giustamente, Chiara Viale, nel suo bel ritratto di Lidia Poët, prima avvocata d’Italia (Lidia e le altre. Pari opportunità ieri e oggi: l’eredità di Lidia Poët. Guerini. Pagine 176. Euro 19,00) alla parte biografica fa seguire alcuni capitoli di riflessione sulle battaglie dell’oggi per le pari opportunità. Perché, come insegnano i poeti, il ricordo delle grandi figure del passato predispone l’animo a «egregie cose» nel presente. E Lidia Poët, a cavallo tra l’Ottocento e il ’900, l’era in cui nasce la sfida dell’emancipazione, ingaggia un’epica battaglia solitaria per l’affermazione dei propri diritti. Ma, lottando per se stessa, getta i semi di vittorie che altre donne coglieranno. Una lotta che si presenta come una corsa a ostacoli in cui l’atleta giunge sfinita a terra nel momento in cui consegna il testimone alla compagna di gara.

Lidia nasce nel 1855 in Val Germanasca. Particolare che spiega molto del suo futuro. Grazie alla tradizione valdese (con al centro la lettura della Bibbia) in quei luoghi a fine ’800 l’analfabetismo, imperante nella penisola, era già debellato. Lidia divora i libri. Vorrebbe fare il liceo ma la famiglia la indirizza verso la scuola normale (le magistrali dell’epoca). Intanto studia, da sola, greco e latino. A diciotto anni parla quattro lingue. Ottenuto il diploma da maestra, in otto mesi supera la maturità classica. Si iscrive a Legge, a Torino. A ventisei anni si laurea a pieni voti: la prima donna, in Italia, laureata in giurisprudenza.

Spesso, le poche laureate dell’epoca si fermavano a quel traguardo. Lidia no. Frequenta come praticante uno studio di Torino e nel 1883 supera l’esame di abilitazione da avvocato. Chiede dunque l’iscrizione all’Albo. Il Consiglio dell’Ordine di Torino, a maggioranza, ammette la domanda. Ancora una volta, un primato: Lidia, a 28 anni, è la prima avvocata in Italia. Nell’accogliere la domanda di Lidia gli avvocati di Torino hanno applicato la legge. Ma si sa che la cultura dei giudici a volte conta più della legge. Il Procuratore generale impugna la decisione dell’Ordine. La Corte d’appello e poi la Cassazione gli danno ragione: Lidia non potrà esercitare nelle aule di giustizia perché è donna.

Chiara Viale si sofferma sulle motivazioni di questo diniego. La motivazione giuridica è palesemente inconsistente. Dicono i giudici: non vi sono leggi che ammettono le donne in avvocatura. Ma non c’era bisogno di alcuna legge che le ammettesse; perché nessuna legge le escludeva! E la legge sulla professione di avvocato non richiedeva il requisito dell’essere maschio (come invece era previsto per alcuni uffici pubblici tra cui la magistratura).

I giudici, rendendosi conto della insostenibilità della loro decisione, si aggrappano alla difesa del costume e della famiglia. Le loro motivazioni sono un modello dello 'spirito del tempo': le donne non possono esercitare in quanto, essendo sottoposte all’autorità maritale, per gli atti compiuti come avvocate avrebbero bisogno del consenso del marito. Sennonché, Lidia non è sposata! Dunque, il motivo dell’esclusione si presenta come una difesa della donna: in tribunale spesso si discutono fatti che offendono la moralità. Se fosse coinvolta in tali discussioni la donna perderebbe «il fascino della poesia, l’elettricità del sentimento, l’incanto della grazia e del pudore». E poi, si devono difendere anche i giudici dal sospetto di dar ragione a una parte sola perché tutelata «da un’avvocatessa leggiadra»!

Ma l’argomento più forte, ricorrente, quasi ossessivo nelle motivazioni dei giudici ha un nome preciso: mestruazioni. Mai esplicitamente indicate ma costantemente evocate. «Le condizioni nelle quali essa [la donna] può trovarsi per natura» le potrebbero impedire di sopportare enormi carichi di lavoro. Chissà perché (si chiede Viale) questa preoccupazione non c’era per le operaie e le contadine. Evidentemente, l’incompatibilità riguarda solo i lavori di intelletto: «la diuturna indivisibilità della sua persona dall’eventuale portato delle sue viscere […] potrebbe ledere il decoro delle aule giudiziarie, sfregiare le toghe ed esporla al ridicolo».

Così i giudici chiudono le porte di quelle aule di fronte a Lidia. Per tutta la vita lei lavorerà nello studio del fratello, avvocato in Pinerolo. Senza poter firmare quel che scrive. Senza poter indossare la toga. Ci vorrà una legge del 1919 (una legge non necessaria) per consentire a Lidia di esercitare in prima persona. Lidia ha 65 anni. Si iscrive all’ordine. Dirà di se stessa: «Alla mia età si è come un lampione di ricordi all’angolo di una strada in cui non passa più nessuno».

In realtà, in quei 36 anni in cui la sua voce è stata esclusa dai tribunali, Lidia ha mai cessato la battaglia. È intervenuta in convegni in tutto il mondo, da Washington a San Pietroburgo. Ha contribuito a dirigere il "Congresso penitenziario internazionale". Si è occupata di carcere, sostenendo la funzione rieducativa della pena. Ha ricevuto onorificenze dalla Francia. È stata consulente del senatore Giovanni Agnelli.

Costumi e leggi cambiano in costante interazione. Lentamente. A volte con qualche passo indietro. Le nipoti di Lidia saranno le donne che coglieranno i frutti più maturi delle sue battaglie. Ma anche loro conosceranno difficoltà e ataviche diffidenze. Quando Bianca Guidetti Serra, avvocata militante, nei primi anni ’50 affronta il suo primo processo (proprio al Tribunale di Pinerolo!), nel momento in cui sta per prendere la parola, il pubblico ministero la interrompe: «Chiedo che la signorina dimostri che ha il titolo per difendere». Quel giorno Bianca non ha con sé il documento dell’Ordine ma per fortuna i giudici respingono la richiesta del pubblico ministero. Da allora, per scaramanzia, Bianca porterà sempre con sé il tesserino di iscrizione all’albo. A un avvocato uomo quella precauzione non sarebbe mai venuta in mente.

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