venerdì 11 gennaio 2019
Dopo quasi trent’anni dalla caduta del regime, il Paese balcanico fa i conti con una nuova transizione. E mentre in «Occidente si è diffuso il materialismo, qui c’è voglia di religione»
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Così vicini, così lontani. Dopo quasi trent’anni dalla caduta del regime, l’Albania vive oggi una nuova fase di transizione. Un purgatorio infinito che il piccolo Paese balcanico ha dovuto scontare per rinascere dalle macerie di un sistema – come lo definisce lo scrittore di Durazzo Baskhim Hoxha –, «paranoico». Ora è in una fase in cui il passato è ormai metabolizzato, ma la stabilità e l’Europa sono ancora un futuro lontano. Il passaggio obbligato della denuncia delle prevaricazioni e degli abusi del «sistema Hoxha» è al culmine, con la nuova legge che tre anni fa ha permesso l’accesso ai file della polizia segreta, la Sigurimi.

È stata creata un’autorità che si occupa di raccogliere, elaborare e divulgare ai cittadini i dati sull’attività dei servizi di sicurezza. Un’iniziativa di legge che ha diviso molti: secondo alcuni può fare chiarezza una volta per tutte sulla rete di complicità che regnava nel Paese, ma secondo altri ha riaperto vecchie ferite, alimentato di nuovo il clima di sospetto.

«C’era un sistema di complicità a tutti i livelli, dai burocrati, ai funzionari di partito agli amministratori – dice Agron Tufa, direttore di Iskk, l’istituto che si occupa delle ricerche e degli studi sul comunismo e sulle sue conseguenze in Albania –, che in questi file non compaiono. Esiste già una legge che vieta agli ex funzionari della Sigurimi di accedere a qualsiasi carica pubblica. Con questa legge ora si rischia di spostare l’attenzione sui pesci piccoli e di creare gravi fratture, ormai inutili, tra membri delle stesse famiglie».

Gli agenti della Sigurimi erano conosciuti come i «microfoni viventi»: avevano orecchie ovunque. Molti albanesi attraverso l’apertura dei file segreti hanno scoperto di essere stati denunciati da parenti e amici stretti. Ma queste non sono le uniche cicatrici non rimarginate. I segni del passato restano visibili anche sull’altra grande componente quasi cancellata nel quarantennio, quella religiosa, in una terra di secolare tradizione di convivenza tra confessioni.

La comunità maggiore, quella musulmana (il 56 per cento della popolazione, per un 10 per cento di cattolici e un 6 per cento ortodossi; il resto sono atei o non rispondono, secondo i dati dell’ultimo censimento di alcuni anni fa), ha dovuto ripartire dall’anno zero, dopo la terra bruciata fatta loro intorno dall’era Hoxha.

«Durante il comunismo – dice a Tirana Agron Hoxha, direttore dei Media e Pr della Comunità islamica dell’Albania (Kmsh) – tutte le proprietà delle istituzioni religiose erano state incamerate dallo Stato. Fino al 1967 comunque i luoghi di culto erano rimasti aperti. Con la svolta antireligiosa del 1967, sono stati abbattuti quasi tutti o adibiti ad attività diverse. Da quel momento è iniziata la vita in clandestinità. I musulmani non si riunivano mai per pregare, lo facevano individualmente. Il Ramadan si osservava di nascosto. Il ritorno alla vita religiosa alla luce del sole è stata segnata dal grande raduno di fedeli a Scutari il 4 novembre 1990, negli ultimi mesi del regime, con la prima Messa nel cortile della cattedrale cattolica. Esattamente una settimana dopo è stata riaperta sempre a Scutari la prima moschea, poi sono seguite tutte le altre».

Dopo è arrivato il fondamentalismo. «Dopo la caduta del regime tutte le comunità religiose in Albania erano allo stremo, senza liquidi né beni immobili. Se il Vaticano è andato in aiuto dei cattolici e la Chiesa greca degli ortodossi, per noi non c’era altra possibilità che accettare gli aiuti dalle monarchie del Golfo. Sono stati loro a finanziare la costruzione di nuove moschee e scuole religiose» (proprio di fronte alla sede del Kmsh, a pochi metri dalla cattedrale cattolica, è in fase di completamento la più grande moschea dei Balcani, la Grande Moschea Namazgâh, con il finanziamento del governo turco).

Anche da parte ortodossa, il prete della cattedrale di Tirana padre Gregory Pelushi conferma che la transizione è stata drammatica. «Gli ortodossi erano quasi scomparsi dopo 40 anni di ateismo di Stato – dice –. Noi dobbiamo tutto ad Anastasios, arcivescovo di Tirana, Durazzo e dell’Albania, ancora attivissimo a 88 anni. Nel 1991, missionario in Africa, seppe quanto stava accadendo e venne qui per rendersi conto di persona. Iniziò un’opera di ricostruzione materiale e spirituale della nostra comunità praticamente distrutta. La sua energia ci ha salvato dall’estinzione ». E oggi? «La grande cattedrale di Tirana dove ci troviamo è stata completata e consacrata nel 2012 – spiega –, dopo quasi 10 anni di lavori: ci siamo ripresi e oggi è sempre piena di fedeli che continuano ad aumentare. Abbiamo 8 vescovi, 160 preti e un gran numero di catechisti molto attivi. È un miracolo».

Ma furono i cattolici – lo ricorda spesso l’arcivescovo di Tirana, George Frendo – quelli più colpiti dalla propaganda del regime, soprattutto dopo il 1967. «Subito dopo la presa del potere nel Dopoguerra – spiega Gentiana Kera, vice rettore dell’Università di Tirana – la Chiesa cattolica fu subito accusata dal partito di Enver Hoxha di collaborare con il nemico. Il fatto è che il Vaticano era visto come fiancheggiatore del fascismo, dopo come nemico del comunismo e i cattolici erano visti come possibili “spie”. Ci furono processi e condanne, l’ultima nel 1974 con il sacerdote Shtjefwn Kurti, accusato di avere celebrato un battesimo. La comunità poté a poco a poco riorganizzarsi fino a quel giorno di Ognissanti del 1990, quando a Scutari, il centro del cattolicesimo del Paese, si riunirono spontaneamente centinaia di fedeli sotto la guida del sacerdote Simon Jubani. È stata una forma di protesta, ma soprattutto una dimostrazione della sopravvivenza della religione durante il regime. Poco dopo fu concessa la libertà di culto e furono restituite le proprietà e i beni che erano stati confiscati. La cattedrale di San Paolo è stato il primo grande luogo di culto ricostruito a Tirana, nel 2002. Negli ultimi anni – conclude – mentre in Occidente c’è stata una tendenza al materialismo, in Albania al contrario c’era voglia di religione». © RIPRODUZIONE RISERVATA Dopo quasi trent’anni dalla caduta del regime, il Paese balcanico fa i conti con una nuova transizione. E mentre in «Occidente si è diffuso il materialismo, qui c’è voglia di religione» La facciata della Cattedrale ortodossa e, in alto a sinistra, la statua di Madre Teresa fuori dalla Cattedrale

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