
L’incontro di papa Francesco con gli artisti in Cappella Sistina del 23 giugno 2023 - Vatican Media
A differenza di altri tratti tematici del suo pontificato, emersi con nettezza fin dall’inizio, la visione e l’azione culturale di papa Francesco sono affiorate lentamente ma in maniera sempre più robusta, fino a consolidarsi negli ultimi anni come tra gli elementi più importanti e forse anche meglio conclusi della sua azione. Per quanto più volte in interviste abbia parlato dei suoi gusti musicali (Mozart, Wagner, l’opera, il tango), letterari (la passione per Dostoevskij, il rapporto con Borges) o cinematografici (il neorealismo, Fellini…), Francesco è stato a lungo etichettato come un pontefice poco interessato alla cultura e alle arti, non di rado per rimarcare – anche, ma non solo, in termini polemici – la differenza con Benedetto XVI. Sintomaticamente, questa immagine si sovrapponeva a quella di un Bergoglio “pontefice pastore” poco interessato alla teologia. I suoi interventi sul tema della cultura e delle arti, che siano discorsi o documenti ufficiali o prefazioni a volumi, in realtà non hanno minore contenuto teologico di quelli dei suoi predecessori. Piuttosto, non solo impiegano un differente registro ma si sviluppano su un terreno diverso e, per questo, aprono strade nuove. In un certo senso o, meglio, in un senso bergogliano, sono meno abitudinari. A indicare l’importanza della cultura nel magistero di Francesco basterebbe il passaggio dell’omelia per il Giubileo degli Artisti del Mondo della cultura, il 16 febbraio scorso – letta dal cardinale Tolentino de Mendonça perché Francesco era da poco stato ricoverato in ospedale – in cui si dice che «l’arte non è un lusso, ma una necessità dello spirito». O ancora la scelta, all’interno della più ampia riforma della Curia romana, di creare un nuovo dicastero per la Cultura e l’Educazione (affidato tra l’altro a un cardinale che è insieme teologo e poeta), con un decisivo avanzamento di grado della prima, riunita in modo decisivo al sistema delle università, in una endiadi dall’indirizzo più ancora politico che amministrativo. Francesco ha sviluppato il suo progetto ecclesiale attorno a un’idea di cultura incarnata. Non uno strumento per dire le verità della fede – la linea di un tempo – ma un dire la cui verità passa per la prova della carità: che, in quanto amore, è prima di tutto moto, desiderio, relazione. Il nocciolo da cui tutto si sviluppa è quello di “nuovo umanesimo cristiano”, enunciato durante il Convegno ecclesiale di Firenze del 2015 sotto la cupola di Santa Maria del Fiore: « Non voglio qui disegnare in astratto un “nuovo umanesimo”, una certa idea dell’uomo, ma presentare con semplicità alcuni tratti dell’umanesimo cristiano che è quello dei “sentimenti di Cristo Gesù” (Fil 2,5). Essi non sono astratte sensazioni provvisorie dell’animo, ma rappresentano la calda forza interiore che ci rende capaci di vivere e di prendere decisioni». Dicendo che «Gesù è il nostro umanesimo » Francesco indicava saldamente al centro il mistero dell’Incarnazione e della kènosis, mettendo in guardia da una cultura fatta di parole «belle, colte, raffinate» ma che «non saranno parole di fede. Saranno parole che risuonano a vuoto» perché intrise di uno spirito gnostico (sul cui ritorno Bergoglio ha costantemente, e a ragione, ha messo in guardia): questo «porta a confidare nel ragionamento logico e chiaro, il quale però perde la tenerezza della carne del fratello». L’antidoto? «Vicinanza alla gente e preghiera sono la chiave per vivere un umanesimo cristiano popolare, umile, generoso, lieto. Se perdiamo questo contatto con il popolo fedele di Dio perdiamo in umanità». “Umiltà, disinteresse, beatitudine” sono le tre parole chiave di quel discorso. Da queste discende tutto il magistero culturale di papa Francesco, in cui cultura e carità si fondono senza che la prima sia piegata in modo strumentale o paternalistico alla seconda. Ai musei ecclesiastici, ricevuti in udienza il 24 maggio 2019, in un conciso discorso che andrebbe recuperato come sintetico programma di “politica culturale” per le Chiese locali, dice che «tutti hanno diritto alla cultura bella! Specie i più poveri e gli ultimi, che ne debbono godere come dono di Dio». Agli artisti riuniti nella Cappella Sistina si raccomanda «di non dimenticarvi dei poveri, che sono i preferiti di Cristo, in tutti i modi in cui si è poveri oggi». Parlando dell’insegnamento, rifacendosi alla gratuità ignaziana e a don Milani, Francesco ha osservato che «perdendo i poveri si perderebbe la scuola» e che non c’è vera cultura ed educazione senza il cuore: «Formare è soprattutto cura della persona e quindi discreta, preziosa, e delicata azione di carità». Perché, in ultima istanza, «la cultura davvero rappresenta la salvaguardia dell’umano». Antonio Spadaro, commentando la Lettera sul ruolo della letteratura nella formazione, osservava che «la sua visione radicalmente “popolare” tocca anche la produzione artistica e la sua fruizione» e che «per Bergoglio la letteratura e l’arte sono vita», ragione per cui «arriva a definirla senza mezzi termini “essenziale” per la formazione dei preti e di chi si prende cura pastorale della gente». Non solo: «Giunge a stabilire un ponte tra due “ministri della parola”: il poeta e il prete». È un tratto, quest’ultimo, che riconnette Francesco direttamente a Paolo VI, il quale auspicava la fusione della vocazione sacerdotale e artistica. Allo stesso modo, l’attenzione concreta alla cultura è un ulteriore segnale della marcatura montiniana del pontificato di Bergoglio. Come Paolo VI, infatti, Francesco riconosce agli artisti quella natura profetica, quella capacità di scavo che insieme porta alla luce e scuote le fondamenta, chiedendo al resto della Chiesa di pensare creativamente come se fosse una artista. Nell’esortazione postsinodale Querida Amazonia del 2 febbraio 2020 (raccolta da padre Spadaro nel recentissimo Viva la poesia!, Ares) un passaggio è costruito interamente mediante l’accostamento di ampie citazioni di numerosi poeti dell’area latino-americana. Come ha osservato Alessandro Zaccuri, «salvo errore, si tratta di un unicum nei documenti del Magistero. Mai, prima di allora, la letteratura era stata utilizzata non come fonte o allusione, ma come trama portante dell’insegnamento di un Pontefice». Se la voce della poesia ha forza profetica, nello storico incontro in Sistina del 23 giugno 2023, dice: «Voi artisti avete la capacità di sognare nuove versioni del mondo. La capacità d’introdurre novità nella storia». E alla prima assemblea plenaria del nuovo dicastero: «Il mondo non ha bisogno di ripetitori sonnambuli di quello che c’è già; ha bisogno di nuovi coreografi, di nuovi interpreti delle risorse che l’essere umano si porta dentro, di nuovi poeti sociali». Si tratta di avere, lo ripete davvero molte volte, una “sana inquietudine” per fare spazio al possibile. La speranza è la virtù dell’inedito. «L’arte e la fede non possono lasciare le cose come stanno». Questo può avvenire solo se cultura e fede sono vela nel mare aperto e non scudo e corazza. Bergoglio, dunque, ha sottratto il discorso culturale a un richiamo elegante e doveroso ma secondario e lo ha rimesso al centro dell’agenda ecclesiale. E la Chiesa all’interno dell’agenda dell’arte. E se ci si guarda intorno, i frutti si vedono. Nei suoi interventi è uscito più volte dagli schemi consolidati sul rapporto tra estetica e sacro, parlando agli artisti con una lingua e con concetti per loro evidenti e condivisibili, ragione per cui questa svolta pare essere stata prima compresa dal mondo della cultura che da quello cattolico in generale. La cultura, prima che custode di un passato, in papa Francesco è la falange mandata in esplorazione di questo cambio d’epoca e, insieme, il terreno di relazione con tutti i diversi mondi che lo abitano. «Il mondo soffre per mancanza di pensiero», scriveva Paolo VI nella Populorum progressio, e aggiungeva: «Noi convochiamo gli uomini di riflessione e di pensiero, cattolici, cristiani, quelli che onorano Dio, che sono assetati di assoluto, di giustizia e di verità: tutti gli uomini di buona volontà». Non è forse quello che ha fatto papa Francesco? E la risposta è stata spiazzante, corale e sincera. L’apice di questo percorso, che ora prosegue con le iniziative per il Giubileo e con sempre più numerosi progetti a livello locale, è stato il Padiglione della Santa Sede all’ultima Biennale di Venezia che, come è noto, non solo era collocato all’interno di un carcere ma ha coinvolto attivamente la popolazione carceraria, portando i visitatori a un impatto diretto con una realtà altrimenti nascosta. Quell’esperienza, in cui l’umanità non è stata restituita solo alle ospiti del carcere ma anche agli artisti, chiamati a spogliarsi di ogni astrazione teorica e a sporcarsi con la vita, non solo si iscrive nel solco del magistero papale ma ne diventa parte viva e attiva nel momento in cui Francesco arriva in visita, primo pontefice, a una Biennale. Umiltà, disinteresse, beatitudine. E la cultura non è più rappresentazione, ma Vangelo incarnato.