venerdì 19 novembre 2021
Lo scrittore analizza i modi in cui le epidemie sono state affrontate dal linguaggio pittorico. E quindi dalla memoria collettiva
Hans Tuzzi

Hans Tuzzi - Giorgio Boato

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Nelle settimane che resero palese come la Covid 19 fosse una “nuova peste”, pare che in libreria siano stati venduti molti romanzi che trattavano l’argomento, dalla Peste di Camus al Decameron, passando ovviamente per Manzoni e il Defoe della Gran peste di Londra. E i media non mancarono di rilevare il fatto. Meno indagato il rapporto fra l’arte e l’epidemia, se si eccettuano rapidi cenni alle ceroplastiche composte dal siciliano Gaetano Zumbo per Casa Medici, in passato studiate – la carne, la morte – da Mario Praz: su tutte, appunto, La peste, un presepe barocco fattosi incubo, con in primo piano i lividi cadaveri imputriditi di bambini innocenti, in uno scenario di disperazione e morte dove tra pustole piaghe spasimi e deliqui il Grande Assente è Dio. E tuttavia l’arte ha forse qualcosa in più da dirci in proposito. Non so se sia vero che dopo il «non ce n’è Coviddi», diventata la Sicilia per alcune settimane una fra le regioni con il maggior numero di contagi, a Palermo si sia invocata santa Rosalia. Se non è vero, è verosimile. E a molti sarà venuto alla mente come Antoon van Dyck, il fiammingo pittore di corte di re Carlo I Stuart, nel 1624, lasciata Genova per Palermo, vi sbarcò poco prima che in città infuriasse il morbo. Palermo ne era indenne da mezzo secolo, e fonti del tempo sostennero che il contagio fosse avvenuto per il tramite di una nave proveniente da Tunisi. Nave non saracena bensì cristiana, anzi: cristianissima. Si trattava di un galeone francese che già aveva fatto scalo a Trapani, con una patente di sanità doppiamente con-traffatta: dalle autorità francesi a Tunisi, prima; dalla Deputazione di Salute, forse senza dolo, poi. I primi morti, quattro, si hanno nel quartiere Fieravecchia, prossimo al porto. Da lì il morbo si diffonde ma per un mese non si prendono provvedimenti. Con i primi contagi a corte, la città viene dichiarata infetta; tra luglio e agosto il viceré Emanuele Filiberto di Savoia e il comandante militare della piazza muoiono. A quel punto si interviene ma non secondo ragione. La rigida politica della “porta chiusa” – cioè della quarantena o, in italese, lockdown – sostenuta con successo cinquant’anni prima dal protomedico Gianfilippo Ingrassia, che aveva disposto il rogo di vesti e mobilia infette, e il seppellimento dei corpi nudi nella calce, viene criticata dal medico suo compaesano e membro deputato della Sanità Marco Antonio Alaymo. Le solenni esequie pubbliche del viceré contribuiscono a diffondere il virus. Allora, le radicali misure di Ingrassia tornarono in auge: ai malati, chiusi in casa, si garantì assistenza medica e religiosa, si chiusero le frontiere e le porte urbiche, gli stranieri dovettero esibire una benda bianca al petto. I morti si stimano in diecimila, ma dopo un anno la situazione era pienamente sotto controllo. Merito, anche, di Santa Rosalia. Che van Dick, rimasto bloccato in città, dipinse in gloria, sorretta dagli angeli. Più dirette, e complicate da tutto ciò che possiamo chiamare modernità, le inquietanti testimonianze artistiche fra Otto e Novecento. Arnold Böcklin dipinge nel 1898 – tre anni prima di morire – una Peste oggi al Kunstmuseum di Basilea. Il quadro sembra preannunciare i demoni e le visioni di Kubin, allucinato profeta del secolo di ferro e sangue partorito nelle trincee dal forcipe della Grande Guerra. In un vicolo selciato, di sapore vagamente medievale, con in primo piano una giovane bruna in veste rosso e oro prona su una pallida bionda in bianco ormai priva di vita, la Peste in forma di cadavere mummificato dagli occhi di tenebra vola a dorso di un drago dalle ali di pipistrello, la cui bocca spande un fiato venefico al cui contatto gli umani cadono morti. Superfluo dire quanti soggetti dell’arte antica – dalle Danze macabre alla Tarante – convergano fra le suggestioni del quadro. Lasciatosi alle spalle l’Ottocento, Egon Schiele compone un quadro ignorandone tutto il portato tragico. Mi riferisco all’autoritratto di famiglia nel quale l’artista, la moglie Edith, incinta, e il figlioletto – aggiunto poi, e l’unico dei tre vestito: il titolo originale era infatti Coppia accovacciata – sono rappresentati ignari del fatto che di lì a poco, tutti, moriranno di febbre Spagnola. Prima Edith, e il figlio ancora in grembo, come, scrive il pittore, «una Madonna terrena che non partorirà mai nessuna salvezza». Poi, il tempo di aggiungere sulla tela quel figlio mai nato, Schiele stesso. Il quadro è esposto alla Galleria del Belvedere di Vienna, e nulla come quegli sguardi dice l’inanità delle vicende umane. Un effetto altrettanto inquietante viene ottenuto con meno mezzi da Edvard Munch, che nel 1919 dipinge sia l’Autoritratto con la Spagnola sia l’Autoritratto dopo la Spagnola, oggi al Museo Munch di Oslo. Da malato, seduto, il pittore appare esausto, scavato, l’occhio che si guarda da un corpo che regge appena ma lotta per la vita. E dopo? Da convalescente? Se non fosse per il titolo, a prima vista potrebbe sembrare un normale ritratto, giocato nei toni freddi del blu contrapposti a quelli caldi del giallo dei mobili. Ma quel giallo non brilla, ricorda la senape – o il pus. E il volto dell’artista, rosso come il tappeto a pavimento, è segnato profondamente dal blu delle guance scavate e delle occhiaie profonde. L’intelaiatura della finestra disegna una croce scura come la notte, e deserta di ogni presenza salvifica. (Se mi è permesso un ricordo privato, ragazzino ebbi modo di conoscere due donne sopravvissute alla Spagnola: il volto era un teschio, e le occhiaie rendevano le loro orbite cave come quelle dei morti). Sì, Munch – che già aveva perso madre e sorella per la tubercolosi dalla quale anch’egli era affetto – è sopravvissuto all’epidemia, ma a prezzo di quale perdita interiore? In entrambi i ritratti egli, dinanzi alla morte, è solo. Laura Spinney, che ha scritto un saggio sull’epidemia di Spagnola, nota giustamente come essa viene ricordata a livello personale, non collettivo: non un disastro storico ma milioni di tragedie private. Sarà così anche per la Covid?

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