domenica 28 dicembre 2014
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Non solo «rivoluzionerà il progetto degli aeroporti, ma sarà un’icona che rappresenterà il Messico per tutte le epoche a venire». Non c’è ombra di modestia nella dichiarazione con la quale Norman Foster e Fernando Romero esultano per aver vinto il concorso indetto la primavera scorsa per il nuovo aeroporto della capitale che fu degli aztechi ma, al di là della sicumera che contraddistingue molti tra i grandi architetti, l’enfasi qui è forse anche la spia di un certo modo di porsi a fronte dell’evolvere dei tempi. La nuova aerostazione è intesa come segno del cambiamento che si auspica nel Messico del presidente Enrique Peña Nieto: dal travaglio delle droghe coltivate e trafficate da bande armate in continua lotta tra loro (55 mila sono caduti uccisi negli ultimi sei anni), a un’economia dinamica e funzionale. Il disegno ha il respiro della grandezza: sarà il maggiore progetto infrastrutturale dell’America Latina per esprimere un cambiamento auspicabile quanto difficile. E la forma si pone come simbolo: riprende la figura, presente sulla bandiera messicana, dell’aquila che si posa sul cactus. Ma ovviamente la si vedrà non da terra, bensì dal cielo, dagli aerei in arrivo.  Siamo abituati a pensare gli edifici con le loro facciate rivolte alle strade, ma qui la fronte sarà verso l’alto. Un tempo c’erano le porte della città che marcavano l’arrivo dei viandanti, o i porti che accoglievano le navi dal mare. Oggi si arriva dal cielo e la città viene vista prima nel suo dilatarsi sul territorio nella ragnatela delle strade, e solo in un secondo momento attraverso la forma delle coperture dei suoi edifici. Le porte, i porti, le stazioni ferroviarie univano ma anche separavano dal mondo esterno: potevano essere chiuse. L’aeroporto ha le sue piste sempre aperte: è il terminale al quale si riconnettono invisibili strade che attraversano i cieli in ogni direzione e in ogni momento, componendo una trama che avvolge tutto il globo. Rendendo vicini tra loro luoghi lontani decine di migliaia di chilometri. Nel farsi carico di questa logica nuova che s’è impossessata del mondo, l’aeroporto della Città del Messico del futuro si riveste del ruolo di araldo, segno, simbolo. Un tempo le cattedrali rappresentavano il centro spirituale e fisico della città: la loro mole spiccava alta sull’orizzonte agli occhi di chi giungeva da lungi, e nel loro volto si identificavano i cittadini, consci di appartenere a una comunità che si sentiva accolta sotto le sue alte volte. Dall’800 i fumi delle ciminiere hanno oscurato i cieli come bandiere scure che segnavano gli agglomerati urbani. Dal ’900 i grattacieli hanno preso a dominare incontrastati l’orizzonte delle città. Negli ultimi decenni i musei sono diventati attrazioni capaci di rivestirsi sia di valenza identitaria per gli abitanti, sia di forza magnetica per i visitatori: se il caso di Bilbao (il Guggenheim dalle strabilianti forme disegnate da Frank O. Gehry) è il più eclatante, da Rovereto a Los Angeles, da Rio de Janeiro a Londra, a Shanghai, a decine ne sono stati costruiti nel mondo per invogliare i turisti e inorgoglire gli abitanti.  Chi avrebbe mai pensato che gli aeroporti potessero ora assurgere a tale nobile funzione? Sinora sono stati catalogati come “non luoghi”, privi di carattere proprio.  'Chi progetta un aeroporto – ha scritto sul “Financial Times” il critico Edwin Heathcore – realizza un edificio da cui, come fosse una prigione, tutti voglio uscire il prima possibile non appena arrivano, a prescindere da quanto elegante ne sia l’architettura». Ma poi Heathcote si lancia in una disamina di tanti terminal di recente fattura e li scopre eleganti, luminosi, accattivanti e riduce la critica al fatto che sono di solito fuori città, lontani dalla vita pulsante.  Resta il problema: per grandiosi che siano, sono veramente usati, 'abitati', vi si svolgono incontri, ci si va per fare qualcosa, o soltanto ci si passa? Secondo Kerrie Jacobs, esperta americana di viaggi e turismo, con l’aumento del numero di persone che si spostano non solo per lavoro, ma anche per il piacere di conoscere nuovi luoghi, l’aeroporto diventa un importante strumento di comunicazione. «Desiderosi di dimostrare la loro importanza e la loro capacità tecnologica, paesi orientali come Cina e Corea hanno realizzato strutture aeroportuali impressionanti». «Sono divenuti un simbolo nazionale – sostiene Ron Steiert, progettista allo studio Gensler che ha firmato aerostazioni a San Francisco, Denver, Jackson Hole, Kamai (India) – e i governi non badano a spese pur di primeggiare».  E così l’aeroporto di Singapore è dotato di piscina panoramica, spa, saloni di bellezza, cinema, giardino botanico e, per chi deve attende la coincidenza per qualche ora, organizza visita guidate alla città. A Dallas Forth Worth ci sono aree giochi dotate di accattivanti modelli di auto, un sistema interattivo per l’esposizione di opere d’arte e lo Skylink, una teleferica che consente di spostarsi tra i terminal osservando dall’alto le vaste hall e che è diventata in sé un’attrazione. All’aeroporto di Helsinki si può godere la sauna nei periodi di attesa... Fino a poco tempo fa dall’interno degli aeroporti difficilmente si potevano guardare gli aerei. Oggi le strategie costruttive sono totalmente cambiate: grandi pareti vetrate ne fanno luoghi privilegiati per osservare non solo arrivi e partenze dei jet, ma anche il panorama circostante. Essi stessi, con le loro mirabolanti architetture e con l’andirivieni di voli, diventano brani cospicui del panorama. I non-luoghi divengono snodi, centri di svago. Soprattutto, momento di unione tra la singola città e la vasta complessità del mondo.
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