domenica 6 marzo 2022
Lo scrittore Ulas Samchuck scrisse un romanzo sulla carestia indotta da Stalin che uccise milioni di persone nel 1932-1933. Subito insabbiato, aiuta a capire la fiera resistenza di Kiev ai russi
Coda per il pane a Kharkiv nel 1932

Coda per il pane a Kharkiv nel 1932

COMMENTA E CONDIVIDI

Per capire la strenua resistenza degli ucraini all’attacco russo è necessario andare alla memoria dei tempi sovietici. E in particolare alla carestia indotta da Stalin nel biennio 1932-33, che causò milioni di morti, almeno cinque. Ed è impressa nel cuore del Paese. Sono poche le famiglie ucraine che non abbiano un parente scomparso in quella tragedia. L’Holodomor ('uccisione per fame') è, però, ancora meno conosciuto da noi degli altri massacri del Novecento. Anche la grande fame - come i ghetti, i campi di sterminio e le grandi deportazioni di massa ha avuto il suo scrittore-testimone. Si tratta di Ulas Samchuk (1905-1987), del quale presentiamo qui sotto un brano tratto dal romanzo Maria. Cronaca di una vita, scritto a caldo già nel 1933. Completato a Praga, l’anno seguente pubblicato a Leopoli, il testo è apparso in patria solo dopo decenni (visto l’ostracismo di Mosca). Ed è tuttora poco conosciuto all’estero. La traduzione in italiano dell’opera è stata realizzata in una tesi di laurea del 2013 da Mariia Semegen, allieva ucraina dell’italianista Carlo Ossola all’Università della Svizzera italiana di Lugano.

La mancanza di notorietà ha anche ostacolato il tentativo di candidare Samchuck al Nobel già negli anni Trenta insieme a un altro scrittore del suo Paese, Volodomyr Vinnychenko. Eppure Samchuk è stato uno dei più importanti letterati ucraini del XX secolo, tanto da meritarsi l’appellativo di 'Omero ucraino'. Era un autore della diaspora (morì a Toronto). Evitò così il destino subito dall’intellighenzia rimasta in patria, che venne spazzata via. Tra gli altri, furono deportati Ostap Vysnja, redattore della rivista satirica Krokodil e Les Kurbas, considerato il fondatore del moderno teatro ucraino, fucilato nel 1937. Samchuk fu nel mirino sia dei regimi nazifascisti sia di quello comunista. Nel 1946 scriveva di sé: «Ho 41 anni. Sono nato durante la guerra, sono cresciuto durante la guerra, sono maturato durante la guerra. Undici anni di guerra e di rivoluzione, quindici anni d’esilio. quattordici anni di pace. La prigionia polacca, tedesca e ungherese. Tre passaggi di confine clandestini. Testimone delle rivolte in Ucraina, Polonia, Cecoslovacchia, Ucraina Carpatica, Protettorato di Boemia e Moravia, Governatorato Generale, Commissariato del Reich di Ucraina, nel Secondo e Terzo Reich. Sono testimone della loro caduta. Testimone delle due guerre più grandi della storia del mondo. Ho visto gli zar, i re, gli imperatori, i presidenti, i dittatori, Mussolini, Hitler, Stalin, la fame del 1932-33, i campi di concentramento... e l’eterno esilio».

Figlio di contadini, al centro della storia mette la vita di una donna - ritratta sin dall’infanzia nell’Ottocento, fino alla morte per fame - in un tipico villaggio rurale. Fu proprio l’opposizione degli agrari, sin dagli anni Venti, alla collettivizzazione e dekulakizzaione a portare alla recrudescenza del regime. Dopo le prime ribellioni ai tempi di Lenin, fu l’arrivo del piano quinquennale di Stalin, basato su industrializzazione forzata e collettivizzazione agricola, a esacerbare la situazione. A farne le spese fu l’identità stessa di un popolo (i suoi ritmi di vita, i suoi riti religiosi). Samchuk lo sottolinea evocando la sparizione della campana del monastero fusa per ottenere metallo. E nel 1930 era partita anche la deportazione di massa di un milione di persone solo sospettate di attività antirivoluzionarie e perché portatrici di un nazionalismo considerato pericoloso. Nel granaio d’Europa la richiesta di ammassare e consegnare i raccolti portò alla scarsità. I contadini iniziarono perciò a nascondere le provviste. Gruppi speciali di attivisti comunisti furono, quindi, incaricati di requisirle. All’inizio del 1933 Stalin inasprì la morsa con una terza richesta di consegna forzata, quando ormai non c’era quasi più nulla. E con misure draconiane per contrastare gli «spudorati furti» per la sopravvivenza. Come la legge "delle cinque spighe" che prevedeva più di dieci anni di carcere o addirittura la fucilazione per chi venisse trovato in possesso di quella quantità di grano.

La gente iniziò a mangiare gli animali e tutti i tipi di piante, anche nocive. Con paglia e bucce di patate confezionava un poco digeribile pane. La fame portò anche a episodi di cannibalismo. Intorno ai villaggi e poi all’intera Ucraina venne applicato, poi - attraverso il sistema delle "tavole nere" - un cordone con il quale il regime impedì ogni commercio e ogni via di fuga. Un segno che la penuria era organizzata. Molte le testimonianze oculari in tal senso come quella del console italiano a Charkiv Sergio Gradenigo. E dei giornalisti inglesi Gareth Jones e Malcom Nugerridge, che nei loro reportage descrissero l’orrore. Dall’altro lato ci fu anche chi si allineò alla propaganda sovietica, organizzata nei celebri "Viaggi in Russia" per intellettuali ideologicamente selezionati. Come il drammaturgo George B. Shaw. O il Pulitzer Walter Duranty, il quale scrisse che in Ucraina non c’era la fame, ma solo «un’alta percentuale di morti legate alle malattie causate da una cattiva nutrizione». Posizioni che meritarono le critiche di George Orwell. Eppure a lungo si è discusso sulla definizione dell’Holodomor come genocidio. Per farlo rientare - invano - nella convenzione del 1948. Raphael Lemkin, colui che introdusse il concetto nella giurisprudenza internazionale, era convinto che lo fosse. E molte prove sono state portate nei decenni. Dallo storico Robert Conquest, che nel 1986 squarciò il velo di silenzio con Raccolto di dolore (Liberal, 2004) e da altri importanti studi di Anne Applebaum ( La grande carestia. La guerra di Stalin all’Ucraina, Mondadori 2019) e Andrea Graziosi ( Lettere da Kharkov, Einudi 1991). Tra i romanzi ispirati all’Holodomor è disponibile al lettore italiano Il principe giallo scritto nel 1963 da Vasyl’ Barka (Pentàgora, 2016). In vista del centenario dai fatti, anche la voce letteraria merita di essere ulteriormente valorizzata


«E la campana del monastero sparì»

di Ulas Samchuck

Se non ci fosse un terreno del genere, se non ci fosse così tanto sole, ci sarebbero cresciute solo delle rocce nude. Sui burroni e sui boschi cadde l’inverno. Le case erano avvolte nel fumo che usciva dai comignoli ed i fuochi luccicanti danzavano nelle finestre. Scricchiolava il portone gelato, per la strada camminavano gli ucraini avvolti nelle pellicce. Sotto le loro gambe crepitava la neve. Per le steppe si scatenarono le burrasche. Il forte vento occidentale si era alzato e picchiava con le ali giganti i territori ucraini. Il villaggio forte e millenne si attaccò al terreno nero come una zecca e si nascose dal freddo, coprendosi con i tetti di paglia e con i giardini. Nel villaggio c’era il monastero. Per tanti secoli il suono della sua campana maestosa si diffondeva sopra le case. E quando arrivavano le primavere, quando fiorivano i meli e il tramonto diventava color vino, era allora che il suono serale della campana si strappava dal mare fiorito con forza e rimbombava a lungo sotto le nuvole ciliegiole. Così succedeva per tanti secoli. Cambiavano le persone, cambiavano i tetti, i giardini si infittivano e si allargavano, aravano il terreno, scavavano le pietre, al posto del legno mettevano il mattone, ma il monastero, le campane, le primavere con i fiori, il sole e il canto dell’usignolo rimanevano. Passò un altro inverno. I giardini iniziarono a fiorire, gli usignoli cominciarono a cantare, ma la campana era sparita. Era il piano quinquennale sovietico. Avevano bisogno del metallo per l’industrializzazione. Avevano tolto le campane e le avevano portate via. Il villano staccò finalmente gli occhi dalla terra e non riconobbe il proprio villaggio. - Fratelli! Ci hanno fregati! Difendiamoci! Ma la pistola si era arrugginita da anni. Intorno al contadino si alzò il muro delle baionette. Lo legarono, quel gigante invincibile, lo misero per terra, calpestarono la sua faccia temprata e ruvida, gli slogarono le sue mani callose… Sulle strade d’acciaio correvano i treni in lontananza. Andavano là, dove c’era tanta neve e tanto gelo, dove frusciavano i pini e ululavano gli orsi bianchi. Le Isole Soloveckie - quanto erano terribili e indimenticabili queste parole. Era l’incubo e la ferita dei secoli. Era la tomba milionaria dell’Ucraina. - Mamma, mamma, dov’è il papa? - Shh figlio! Non c’è il nostro papa. L’hanno portato via. Non parlare l’orfano del vivo padre. I vermi neri del terreno ucraino si contorcevano dal gelo, si nascondevano nella neve. Un ragazzo nel carcere intonava: «Mio padre era uno dei Petlura, gli si sono perse le tracce, ola ola». Se la terra non fosse così buona, ci sarebbero solo delle rocce nude. Sopra le steppe volava l’orrore. Le persone come uno stormo di cornacchie spaventate scappavano chissà dove. Cadevano sotto le pallottole, affogavano nelle onde dei fiumi, morivano gonfi dalla fame. (Traduzione di Mariia Semegen)



© Riproduzione riservata
COMMENTA E CONDIVIDI

ARGOMENTI: