sabato 1 novembre 2014
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Cosa ha sul comodino Bruce Springsteen, uno dei più formidabili cantori delle luci e delle ferite del sogno americano? Libri, libri e ancora libri. Perché, svelando in un’intervista al New York Times (LEGGI) la mappa dei suoi gusti, Springsteen si rivela un lettore onnivoro e appassionato. Capace di saltare dal romanzo americano ai grandi russi, da Philip Roth a Dostoevskij, passando per Cormac McCarthy, sorta – dice Springsteen – “di ibrido tra Faulkner e il genere spaghetti-western di Sergio Leone”. Il libro appena terminato? “Moby Dick”, da cui il rocker si era tenuto a lungo alla larga perché un po’ “spaventato” dalla fama che lo accompagna. Il prossimo della lista? “The Adventures of Augie March” di Saul Bellow. L’ultimo che ha fatto piangere e quello che ha divertito il 65 enne rocker del New Jersey? Ecco le risposte: “The Lay of the Land” di Richard Ford e “The Road” di Cormac McCarthy. L’amore per i libri Ma come è nato il rapporto tra il rocker e la lettura? In ritardo, confessa Springsteen, non proprio un campione tra i banchi di scuola (“abbiamo imparato più da un a canzone di tre minuti/ che dalla scuola – canta il protagonista del brano No surrender, ASCOLTA QUI SOTTO).
“Ho cominciato a leggere seriamente a partire dai 28 -29 anni”, racconta il Boss. Quindi una vera e propria esplosione: Flannery O'Connor, James M. Cain, John Cheever, Sherwood Anderson e Jim Thompson. Nella rosa dei nomi citati da Springsteen, spicca quello della tormentata scrittrice cattolica Flannery O'Connor, forse l’incontro decisivo, quello che ha influenzato maggiormente la scrittura del cantante di Born in The Usa: “nei suoi racconti c’era l’inconoscibilità di Dio, il mistero intangibile della vita”, qualcosa che ha accompagnato Springsteen “ogni giorno della mia vita”. D’altronde basta ascoltare le parole di My father’s house – capolavoro tratto dall’album Nebraska – per essere catapultati nel mondo gravido di presenze oscure e spettrali della scrittura della O’Connor. Il brano canta dell’impossibilità della riconciliazione con il padre, in una narrazione che riecheggia – come ha notato Antonio Spadaro - la parabola evangelica del figliol prodigo. Il protagonista sogna di essere tornato bambino. Cerca di tornare a casa. Il vento percuote gli alberi, fa alzare voci spettrali dai campi. Rovi gli strappano i vestiti, gli graffiano le braccia, il suo cuore batte a mille perché ha “il diavolo alle calcagna”. La casa del padre “brilla e risplende” davanti ai suoi occhi e il bambino continua a correre finché non si ritrova, tremante, tra le braccia del padre. Ma il sogno finisce. L’uomo si alza, sale in macchina e corre verso la casa del padre. Ma quando bussa alla porta, fa capolinea una donna che non hai visto e che lo disillude: “Mi dispiace, figliolo, ma nessuno con quel nome abita più qui”. Nessuna ricongiunzione è ormai possibile. La casa del padre si erge come “un faro che chiama nella notte”, ma rimane “fredda e solitaria”. Vuota.  I fantasmi di Tom Joad Non poteva mancare il riferimento a Steinbeck e al “fantasma” di Tom Joad che Springsteen fa materializzare nel bel mezzo di una delle tante crisi “del nuovo ordine mondiale”. Ebbene in un vertiginoso gioco di specchi tipico della cultura americana, il Tom Joad di Springsteen emerge più dalla pellicola del film di John Ford e dalla ballad omonima di Woody Guthrie che dalla pagine di Furore. “Ho letto "The Grapes of Wrath" – confessa Springsteen - molto tardi, molto tempo dopo che avevo scritto la canzone "The ghost of Tom Joad. Ma alla fine era tutto quello che desideravo che fosse”.
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