martedì 23 giugno 2020
Il susseguirsi delle crisi dal 2008 a oggi ha avuto nella recessione causata dalla pandemia il suo compimento. Per uscirne l’Unione ha scelto di percorrere una strada di rilancio solidale innovativa
Enrico Letta

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“Dialoghi”, trimestrale di Ac, pubblicato da Ave, è in uscita col numero 2 del 2020. Ne anticipiamo questo intervento dell'ex presidente del Consiglio Enrico Letta sul futuro dell'Europa. Oltre a un articolo firmato da Matteo Zuppi sulla creatività pastorale, nucleo della rivista è il dossier “Cristiani ed ebrei” con contributi di Francesco Capretti, Brunetto Salvarani, Romano Penna, Massimo Giuliani, Piero Stefani e interviste a Riccardo Di Segni e Pierbattista Pizzaballa.

Ci sono, in questa raggelante assuefazione alla morte, le conseguenze di una perdita di senso che ha interessato la gran parte delle società europee negli ultimi anni e che viene da lontano. Siamo da tempo anestetizzati al dolore. E in larghi strati di quella che definiamo coscienza europea pare ancora cogliersi un’accettazione acritica, senza troppi interrogativi etici, del danno collaterale rappresentato dalle “vite di scarto”. Prima i migranti, poi gli anziani, i poveri, le minoranze nelle periferie degradate. In una parola: i vulnerabili. Quali che siano le cause sociologiche di questa deriva, il trauma Covid, una volta metabolizzato fino in fondo, può tuttavia costituire uno spartiacque. Per la violenza e la rapidità con cui ha aggredito Paesi da decenni sostanzialmente immuni a grandi tragedie collettive. E per la pervasività del virus che ha attraversato frontiere, divelto steccati sociali, sovvertito certezze sulla solidità del nostro modello di sviluppo e benessere. Benché non paragonabile per distruttività materiale a una guerra, la crisi Covid ne replica, però, i tratti della “cesura” storica: un taglio netto, drammatico, rispetto al “mondo di prima”, ma anche l’occasione positiva, rigenerante, di ricostruire le società europee su basi nuove. In questo «passaggio epocale», per richiamare la definizione di Papa Francesco, la prima lezione da cui ripartire in Europa è che «tutti dipendiamo da tutti»: all’interno delle società e tra Stati membri.

Dai comportamenti di ciascuno discendono le sorti degli altri. È, a ben vedere, un inno al nesso inscindibile tra persona e comunità, una chiamata alle ragioni della solidarietà e della sussidiarietà. Ad essa si ricollega la seconda lezione che, più che un monito, è un richiamo al senso profondo dell’Unione: pur con tempistiche e soluzioni diverse, infatti, nel complesso i grandi Paesi europei, messi di fronte alla scelta drammatica tra la tutela della vita e le ragioni dell’economia, hanno prevalentemente optato per la prima, benché consapevoli delle ricadute che questa decisione avrebbe avuto sull’economia e sul lavoro. Di nuovo: la persona, con i suoi diritti non negoziabili, al centro. E il confronto con quanto avvenuto altrove (negli Stati Uniti, in Russia o in Brasile) pare suffragare l’auspicio del cardinale Martini che preconizzava la trasformazione della proiezione globale dell’Europa a un ruolo di «faro morale e culturale». Da una influenza economico–politica di matrice novecentesca, a una ritrovata centralità conquistata in virtù del nostro essere «potenza di valori». Declinare politicamente questa “potenza di valori”, e farne la bussola della ricostruzione in uno scenario rivoluzionato dalla pandemia, è compito delle classi dirigenti europee. La reazione alla crisi Covid delle istituzioni comunitarie sembra muoversi in questa direzione. Prima la Banca centrale europea, poi la Commissione, con una rapidità e una forza d’urto senza precedenti, hanno lanciato tre messaggi fondamentali. Primo, l’Europa c’è ed è pronta a dispiegare tutte le energie e tutte le risorse necessarie per la ripartenza.

Secondo, l’Europa è una comunità di valori, nella quale nessuno può e deve rimanere indietro. Vale per gli Stati, vale per i cittadini. Terzo, l’Europa si candida, in un nuovo ordine globale dominato dal bipolarismo muscolare tra Stati Uniti e Cina, a essere, appunto, una “potenza” con la forza derivante dai propri valori e dalla propria identità. È un passaggio di livello sostanziale che, prima della vicenda Covid, sembrava del tutto impreventivabile. Osservando le quattro grandi crisi che avevano colpito l’Europa dal 2008 in poi – finanziaria (2008– 2012), dei rifugiati (2013–2016), del terrorismo islamista (2015– 2016), della Brexit (2016–2019) – si registrava infatti una progressiva, apparentemente inesorabile, discesa dell’Unione nella scala di potenza a livello mondiale. Tardiva ed estemporanea la risposta alla crisi generata dal crollo di Lehman Brothers, specie rispetto a quella statunitense. Confusa e in ordine sparso la conduzione dei dossier migranti e terrorismo islamista dopo la recrudescenza delle guerre in Libia e Siria. Dirompente, nonostante una buona gestione del negoziato, il danno d’immagine provocato dalla Brexit, con l’uscita di un grande Paese come il Regno Unito, che pareva dire al mondo quanto poco conveniente fosse stare dentro l’architettura europea. Un percorso illuminato solo dal «whatever it takes» di Mario Draghi del 2012, giunto a quattro anni di distanza dallo scoppio della crisi e originato soprattutto dalla capacità di leadership e visione dell’ex governatore.

Una parabola che, in assenza di altre soluzioni di continuità, poteva condurre l’Europa non solo all’irrilevanza negli affari globali, ma alla stessa disintegrazione del progetto politico e istituzionale entro il quale è da decenni collocata. Abbiamo corso un rischio esiziale, dobbiamo esserne consapevoli. Abbiamo lasciato che in gioco ci fosse la stessa sosibili pravvivenza dell’Unione. Il tutto soprassedendo sulla frattura forse più profonda e potenzialmente mortale: quella tra le istituzioni e i propri cittadini. Di qui la minaccia rappresentata dal ritorno dei nazionalismi, dalla degenerazione dell’ethos pubblico, da spinte populiste ovunque contrassegnate dalla paura, dal rifiuto aprioristico delle ragioni altrui, dallo svilimento di valori quali la solidarietà e la vita stessa di altri esseri umani. Le stragi del Mediterraneo, con la pervicace incapacità negli anni di costruire soluzioni all’altezza del fenomeno delle migrazioni, sintetizzano con efficacia questo smarrimento valoriale e politico. È, dunque, su questa Europa fragile, indebolita nella sua tenuta democratica e declassata nelle sue ambizioni geopolitiche, che si è abbattuto il virus. Poteva essere il colpo definitivo; è stato, invece, lo scatto per un cambio di passo e di visione. In altre parole, si è capito, a tutti i livelli, che non c’erano più margini di errore. È grazie a questa acquisita consapevolezza che si è potuto, ad esempio, giungere al Recovery Fund lanciato dalla Commissione europea. Centinaia di miliardi messi a disposizione degli Stati membri, a partire da quelli più colpiti dalla pandemia.

È grazie a questa mutazione di intenti che si è cambiata, archiviando la vicenda greca e gli errori a essa connessi, la natura del Fondo salva Stati, il famigerato Mes, creando una linea di credito speciale dedicata solo alla modernizzazione dei sistemi sanitari, alla cura e alla prevenzione della salute dei cittadini in previsione di pos- altre emergenze di intensità paragonabile a quella avuta dal coronavirus. Infine è grazie alla comprensione dell’intensità del disagio delle persone che è nata davvero l’Europa sociale. Quella del programma Sure, attraverso il quale per la prima volta nella sua storia l’Unione si fa centro di irradiazione di politiche pubbliche contro la disoccupazione e l’emarginazione. Non era mai accaduto, a causa soprattutto del veto del Regno Unito (celebri gli scontri tra Jacques Delors e Margaret Thatcher o, dopo, tra Romano Prodi e i vari premier britannici succedutisi nel suo quinquennio alla guida della Commissione) pronto a contrastare qualsiasi virata sul terreno sociale. In questa chiave, la scelta Brexit, che pure è stata un passaggio traumatico, si è rivelata un’opportunità per progredire lungo direttrici in precedenza inesplorate: un’altra crisi trasformata da vincolo in opportunità. In questa chiave la storia dei popoli replica dinamiche affini a quelle che caratterizzano la storia degli individui.

Come una persona investita da un grosso trauma, infatti, l’Europa sta trovando la forza di rialzarsi e sta cogliendo l’occasione per diventare davvero adulta, ridisegnando, aggiornandolo, il suo modello di sviluppo intorno ad alcune grandi missioni: la sostenibilità ambientale, la coesione sociale, l’umanesimo tecnologico. E sta provando a farlo accettando per la prima volta di definire una “dottrina europea” nelle relazioni internazionali. È una responsabilità epocale: difficile come lo sono le vere rivoluzioni, ma forse meno ostica di quanto sembri. Questo perché i presupposti della dottrina europea sono già inscritti nella nostra identità comune e nel paradigma di sviluppo umano, di pace e di benessere da cui si è originato il progetto dei padri fondatori. Un progetto da difendere e rilanciare contro ogni spinta alla disgregazione, all’annacquamento dei principi costitutivi, agli egoismi nazionali e partigiani. Una battaglia per una nuova Europa, finalmente e definitivamente, “potenza di valori”.

Il susseguirsi delle crisi dal 2008 a oggi ha avuto nella recessione causata dalla pandemia il suo compimento. Per uscirne l’Unione ha scelto di percorrere una strada di rilancio solidale del tutto nuova e realmente comunitaria ponendosi come esempio politico ed economico a livello globale

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