
La parata militare del Giorno della Vittoria sulla Piazza Rossa di Mosca - Ansa
La guerra fra Russia e Ucraina come un conflitto fra due modi di intendere la modernità, anzi fra paleomodernità e neomodernità. Si potrebbe persino chiamare la guerra dell’Antropocene. È affascinante e niente affatto peregrina la tesi di Alexander Etkind, storico e psicologo russo che insegna Relazioni internazionali e Storia alla Central European University di Vienna, nel saggio La Russia contro la modernità, edito da Bollati Boringhieri (pagine 160, euro 20). Sono passati oltre trent’anni da quando il sociologo Zygmunt Bauman affermava: «Il comunismo è stato il paladino più convinto, più vigoroso e intrepido della modernità. È sotto l’egida del comunismo, non del capitalismo, che il sogno temerario della modernità si è spinto fino ai suoi confini estremi: progetti grandiosi, ingegneria sociale senza limiti, gigantismo tecnologico, trasformazione totale della natura». Un sogno che si è infranto così come l’utopia della creazione di una società giusta ed egualitaria, schiacciato da un totalitarismo brutale. Ma Bauman, che scriveva queste righe nel 1992, un anno dopo il crollo dell’Urss, coglieva nel segno: l’Unione Sovietica era paladina di una forma di paleomodernità che vedeva lo Stato onnipotente e assoggettava persone e popoli e che si è rivelata al fondo antiquata. La guerra iniziata da Putin contro l’Ucraina è perciò secondo Etkind «un’operazione più ampia, rivolta contro il moderno mondo della consapevolezza climatica, della transizione energetica e del lavoro digitale». Contro una modernità «riflessiva, sostenibile, decentrata che ci aiuterà a sopravvivere all’Antropocene». L’autore la chiama “gaiamodernità” traendo il nome da Gaia, il sistema planetario di vita e materia – secondo la nota teoria di Lovelock – in cui viviamo, e contrapponendola alla paleomodernità appunto, fondata «sulla colonizzazione delle risorse, sull’imperialismo e sul capitalismo di guerra». Ed è esattamente per rimanere ancorata a questa concezione di sfruttamento dei popoli e della natura che Putin e i suoi oligarchi hanno scatenato il conflitto in Ucraina.
Come rileva Luigi Zoja nella prefazione, la Russia negli ultimi decenni «è rimasta indietro: malgrado l’alta richiesta di materie prime, soprattutto petrolio e gas, che sostengono la quasi totalità dei suoi introiti, ha un prodotto interno complessivo inferiore a quello dell’Italia, l’economia più debole dell’Unione europea». Abbiamo a che fare con un petrostato, in questo caso basato più sull’esportazione che sull’estrazione e sulla trasformazione, attività in cui è impiegato solo l’1 per cento dei russi. Soprattutto, si tratta di un petrostato che funziona come i vecchi imperi mercantilisti: chi ne trae beneficio non è affatto – come avviene ad esempio in Norvegia – l’intera popolazione, che rimane poverissima, ma una classe di plutocrati perlopiù corrotti e allineati al potere. Chi non si sottomette, fa una brutta fine. Così come denuncia il malaffare e la corruzione: basti pensare a Navalnyi e alla Poliktovskaja, a tutti gli oppositori e giornalisti fatti uccidere dal regime. «L’intento di Putin – spiega ancora Etkind – era quello di riportare in auge la paleomodernità di stampo sovietico: il regno del petrolio, dell’acciaio e dei fumi, la grandiosità del potere militare, l’unità forzata del popolo». Non più cementati dall’ideologia marxista-leninista ma da un nazionalismo mistico. Una sorta di fascismo che fa guerra alla cultura e all’istruzione, alla ricerca e ai mass media, che limita l’uso di Internet e vede la missione della Russia come quella di un katechon. Da vero e proprio filosofo della storia, Etkind si addentra nei meandri della mentalità della Russia e dei suoi leader, protagonisti di un regime autoritario imprevedibile che continua a guardare l’Occidente con invidia mescolata a disprezzo. Ma anche della società russa, addomesticata e incapace di ribellione, afflitta da disuaglianze enormi e da una crisi demografica spaventosa.