Scala, la Prima insegna: Mcensk non è poi così lontana

Il racconto di Šostakovič, nel cabaret tragico "Una lady Macbeth del distretto di Mcensk", è arte e musica capace di parlare all'oggi. Anche ai manifestanti davanti al teatro
December 8, 2025
Scala, la Prima insegna: Mcensk non è poi così lontana
Ansa
Mcensk non è poi così lontana. Mcensk, quel distretto russo dove abita (abita ancora oggi, vittima e carnefice senza tempo, donna la cui storia è destinata tragicamente a ripetersi quasi ogni giorno, ovunque), Mcensk, dove abita Katerina Ismailkova – che oggi finirebbe direttamente in cronaca, reportage con titolo a tutta pagina per raccontare una delle tante, troppe stragi familiari efferate. Mcensk è molto più vicina di quello che sembra. La Mcensk di Dmitrij Šostakovič. E di Nikolaj Leskov, il primo ad aver raccontato – incipit alla Rosso Malpelo, verista e determinista, folgorante per il romanzo pubblicato sulla rivista dei fratelli Dostoevskij nel 1865 – la storia di Katerina. Vittima e carnefice. Non solo una, non solo l’altra cosa. Subisce violenza e avvelena – ingegnosa, mettendo veleno per topi nei funghi che il suocero le chiede quasi morbosamente di cucinare. Uccide Katerina. In un ribaltamento di quello che oggi la cronaca ci consegna troppo spesso, uomini che uccidono le donne. Ribaltamento di genere, qui. Ma non di tragicità. Spiazzante, ma necessario per riflettere e provare a comprendere, distanziandosi dal coinvolgimento emotivo, quanto Mcensk (che non è solo un luogo fisico nella trasfigurazione musicale) non sia poi così lontana.
Vicina all’Ucraina Mcensk. Una manciata di chilometri, nemmeno trecento, dal confine. Vicina all’Ucraina che ogni giorno lotta (ancora) per la sua libertà. Vicina. Anche se stavolta, in questo nuovo 7 dicembre con l’opera russa (ancora, dopo il Boris Godunov di Modest Musorgskij del 2022), la bandiera gialla e blu è rimasta quasi nascosta (bandita?) nelle immancabili manifestazioni (e proteste) fuori dal Teatro alla Scala. È rimasta lì, resistente, dove, instancabile, sventola ogni sera dal 24 febbraio 2022. In piazza Scala, davanti a Palazzo Marino. Il palazzo del Comune. Zona rossa ieri. Ha sventolato, ma quasi timida questa volta, soffocata dalle bandiere palestinesi. E da quelle dei sindacati. E dai fumogeni, bagliori densi di zolfo, che quasi oscurano le luminarie di Natale, già accese da tempo. Piazza Scala, ribattezzata dai manifestanti ProPal – adesso, in tempi di flottiglie, l’istanza è questa… ma il popolo che protesta sembra essere sempre quello, ogni anno, sindacati e centri sociali – piazza Scala ribattezzata pizza Gaza. Per sostenere (giustamente) un altro popolo invaso e minacciato (ancora) nonostante piani di pace approvati, ma poi disattesi.
Vicina Mcensk. Luogo non solo fisico. Perché lì c’era, ma forse c’è ancora, una donna che lotta – lotta e sbaglia, perché sceglie la morte – per la sua libertà. Katerina Ismailkova. Come la racconta Dmitrij Šostakovič in quel cabaret tragico che è la sua Una lady Macbeth del distretto di Mcensk. Katerina, spietata, feroce, tanto che i suoi concittadini le attaccano addosso il soprannome di Lady Macbeth – come quella di Shakespeare spinge il suo uomo ad uccidere… quella scozzese lo aveva fatto per il potere, questa russa in un delirio di sesso ed emancipazione. Uccide lei stessa. E vede i fantasmi delle sue vittime – uno, quello del marito, esce dalla torta delle sue seconde nozze. Una lady Macbeth del distretto di Mcensk. Inquietante l’articolo indeterminativo. Una. Perché Katerina è (drammaticamente) una delle tante. Ieri come oggi. Vicina, dunque. Al nostro quotidiano. Attualità senza tempo (non voluta, non cercata, forse, ma prepotente nel suo imporsi ogni volta) dell’arte. Della musica. Capace di andare oltre la censura – quella che ha fatto storia, quella di Stalin, che nel 1936 mise al bando l’opera di Šostakovič, Caos invece di musica scrisse, imbeccata dal regime comunista, la Pravda; quella che oggi, anche lei imbeccata da regimi meno evidenti, ma ugualmente devastanti, quelli del cancel culture, vorrebbe mettere a tacere artisti (di ieri e di oggi) di un paese che colpevolmente attacca e invade.
Capaci, l’arte e la musica, di parlare ancora oggi, senza mediazioni. Lo dice, ancora una volta, la Prima del Teatro alla Scala. Specchio – lo si ricorda sempre, ma ogni volta si impone la necessità di ripeterlo, perché vera e bruciante verità – del nostro tempo. Tempo di guerra e di violenza. Violenza fisica e psicologica. Tempo che ha bisogno di speranza – un anno fa Papa Francesco apriva il Giubileo della speranza, oggi Papa Leone lo porta a compimento. Speranza che non c’è nel nero del racconto tragicomico e sferzante di Šostakovič, perennemente in bilico sul baratro – come il Novecento dei regimi, quello comunista e quello nazista, che il compositore irride con la sua musica. L’acqua è nera, nera come la mia coscienza la pietra tombale che Katerina mette alla sua parabola umana. Drammatica, intensa aria (quasi mahleriana) che chiude l’opera, primo piano emotivo su Katerina che ci guarda, disperata, negli occhi. Grida. E non è facile sostenere quello sguardo. Sopportare quel grido. Che chiede almeno pietà, dove la speranza sembra morta. Occhi e cuore di Sara Jakubiak, impressionante per immedesimazione (e al tempo stesso necessario distacco) nel torbido di Katerina.
Inaugurazione di stagione del Teatro alla Scala con Una lady Macbeth del distretto di Mcensk, scelta inaspettata, spiazzante, eppure doverosa per celebrare (ma non solo) i cinquant’anni della morte di Dmitrij Šostakovič. Necessaria in un tempo in cui il rischio assuefazione di fronte al dolore è in agguato. Sobrietà e rigore in teatro, poche le presenze eccentriche. Forse Šostakovič le ha tenute lontano. In palco reale , accanto al sindaco di Milano Beppe Sala, il ministro della Cultura Alessandro Giuli – fuori le proteste dei lavoratori scaligeri (ma alcuni sono arrivati anche dalla Fenice di Venezia) per il nuovo Codice dello spettacolo che il governo sta elaborando, nel quale si chiede maggior attenzione al repertorio italiane e opere non più lunghe di tre ore… il che vorrebbe dire addio a Šostakovič e a Wagner e a Strauss… ma il teatro resiste. Applaude l’Inno di Mameli, che apre la serata, anche se non c’è il Capo dello Stato Sergio Mattarella. C’è, però, la senatrice a vita Liliana Segre per un’opera mai stata in cartellone alla Prima. Bellissima. Modernissima. In una scrittura che guarda al jazz e al grande schermo – e Šostakovič ha scritto anche per il cinema.  Fortemente voluta questa Lady Macbeth da Riccardo Chailly, al suo ultimo 7 dicembre da direttore musicale, dopo dieci anni di regno – ma il suo primo Sant’Ambrogio è del 2006, verdiano con Aida, e il suo percorso scaligero, iniziato nel 1978, non si fermerà certo a questa serata.
Coraggio premiato da un applauso lungo dodici minuti. 
Che arriva mentre sul palco c’è ancora quella camionetta – evoca la guerra, quella che quotidianamente ci raccontano i reportage dal fronte, che ormai guardiamo come una fiction – che conduce i deportati in Siberia e che ha sfondato (colpo di teatro che apre il quarto atto e porta la narrazione su un piano onirico) le pareti del ristorante degli Izmailov. Padre e figlio, Boris e Zinovij, piccoli imprenditori di provincia, uno possessivo, l’altro inetto. Suocero e marito di Katerina, che li ha uccisi entrambi. Che ha sposato il bracciante Sergej, Baciami fino a farmi male alle labbra gli chiede per convincerlo ad aiutarla ad uccidere il marito. Arrestata e deportata. Tradita, venduta per un paio di calze di lana che Sergej regala alla sua nuova amante Sonetka. Che Katerina, nel gesto più nero di sempre, trascina con sé nella morte. Non nelle onde nere del lago – nera resta la sua coscienza – ma cospargendosi di benzina e bruciando viva con la rivale. Le fiamme illuminano la sala.
«Si avvisa il gentile pubblico che lo spettacolo include scene che potrebbero turbare la sensibilità degli spettatori» l’avvertimento che si legge a inizio serata, sui tablet – mette in guardia da scene di violenza (che ci sono, urticanti), da scene di sesso (che non sono così esplicite). Tablet dove poi scorre la traduzione del libretto di Aleksandr Prejs. Crudo, duro come la vita. Che non risparmia nulla. Chailly lo ha voluto nella prima versione, ruvida, quella che poi Šostakovič stempererà rifacendo la Lady  e intitolandola Katerina Izmajlova. Una persona. Anziché un appellativo, Una lady Macbeth del distretto di Mcensk. Che, però, funziona di più. Perché Mcensk non è poi così lontana. Il fuoco che avvolge le due donne illumina la sala del Piermarini. Quasi lo senti addosso. Caldo. Senti l’ìodore di combustibile. Perché Katerina si è cosparsa di benzina – in scena due stuntment, bravissimi, coraggiosissimi, torce umane subito messi a terra e “spenti” da Vigili del fuoco in costume di scena, poliziotti della scorta dei deportati. In sala qualcuno sussulta. Qualcuno sgrana gli occhi. Qualcuno scatta una foto – ottima per Instagram, insieme al selfie con sullo sfondo il palco reale infiorato. Katerina e Sonetka avvolte dalle fiamme. Immagine iconica dello spettacolo di Vasily Barkhatov. Colpo di teatro (un altro) del regista russo. Che debutta alla Scala.
Racconto nel racconto quello di Barkathov. Che immagina la sua Lady Macbeth come la lunga deposizione di Katerina davanti al sergente di polizia che l’ha arrestata. Si apre il sipario. La musica ci porta subito nel cuore della vicenda. Il palco nero. Katerina, cappotto e velo da sposa ancora in testa, seduta al tavolo del posto di polizia confessa. Il sergente annota tutto. Vediamo il suo verbale, in un fascicolo giudiziario dove si affastellano impronte, prove, indizi… Indagine su Katerina – e la metafora va oltre l’inchiesta per gli omicidi, racconta in profondità l’uomo – che Barkhatov costruisce tutta sul testo. Funziona incredibilmente il dentro e fuori dall’azione, perché gli a parte dei personaggi diventano la loro deposizione, a quel tavolino che sale e scende in continuazione dalle viscere del palcoscenico a scandire i flash back del racconto (insieme ai cambi di luce ben concertati da Alexander Sivaev). Caterina confessa. E parte l’indagine. Siamo nella grande sala del ristorante degli Izmailov. Padre e figlio, Boris e Zinovij, piccoli imprenditori di provincia. Ma qui siamo a Mosca, in uno dei palazzi del Gotico staliniano – monumentale la scena, pressoché unica, di Zinovy Margolin, costumi in stile di Olga Shaishmelashvili. Qui rivive il racconto (l’interrogatorio) di Katerina. Qui e “dietro le quinte” nel retrobottega, nelle cucine, che entrano ed escono a vista, in proscenio, con un effetto cinematografico sempre vincente – il richiamo alla celluloide è costante, dal cinema russo al surrealismo di Marco Ferreri (la violenza su Aksin’ja vede i cuochi “cucinare” la donna con farina e marmellata, come fosse una torta), ma anche di Woody Allen.
Fumo e vodka. Per un poliziesco anni Cinquanta. Una Mcensk non troppo vicina, dunque. Stratagemma narrativo che aiuta a distanziare i fatti. E che asseconda la carica ironica della musica facendo del racconto quasi una parodia. Distanziamento brechtiano anche nel dentro e fuori dall’interrogatorio. Perché la prima notte d’amore di Katerina e Sergej è un incidente probatorio, ricostruzione dei fatti con i due che rivivono quel momento davanti ai poliziotti – la musica racconta inequivocabilmente la passione. E anche l’omicidio del marito di lei, Zinovij (ucciso con un colpo di pattino in testa),  è una ricostruzione del delitto, con tanto di fantoccio a simulare la vittima. Barkhatov costruisce una drammaturgia credibilissima, che (cinematograficamente, appunto) svela e rivela i fatti. Racconto duro. Crudo nello srotolare gli avvenimenti. Un pugno nello stomaco il funerale di Boris, sulle note della Passacaglia, nella sala del ristornate con la bara poi che resta in mezzo alla sala, intralcio per i camerieri che apparecchiano i tavoli per la festa di matrimonio.
Cinematografica, impregnata di Novecento (anche oltre Šostakovič), la direzione di Chailly. Salutato da applausi a ogni rientro in buca… opera divisa in tre parti. Passo teatrale sempre efficace quello che il direttore milanese imprime alla partitura, racconto rigoroso impastato continuamente al respiro sinfonico – che guarda al jazz e al musical – della grandi pagine orchestrali, a iniziare dalla Passacaglia, sintesi e vertice della lettura musicale del direttore. In perenne bilico tra rigore e libertà, tra lucida analisi dei fatti e ironia sferzante sugli stessi. Uno Šostakovič solenne e al tempo stesso ammiccante, quello di Chailly. Assecondato con entusiasmo dall’orchestra del Teatro alla Scala – molti i soli che si distinguono, quasi la partitura fosse un pezzo cameristico. Stipatissima in buca l’orchestra, perché la partitura chiede un organico imponente. Per un suono pieno – ma quando si aprono oasi meditative, la poesia è in agguato e cattura – che non sovrasta mai il canto. Canto che Chailly modella sulla parola grazie a un cast di cantanti e attori insieme. Dominato dalla Katerina di Sara Jakubiak, presenza scenica calamitante, canto sempre a fuoco sulla musica, intenzioni perfette per la lettura di Barkhatov. La sua è una donna che vede la fine e ripercorre, come in una corsa verso il baratro, la sua parabola umana. Applauditissimo il soprano americano, alla sua prima volta scaligera.
Pedine, pallide ombre, gli uomini che circondano Katerina. Così li vuole Šostakovič. Uomini che soccombono. Come Sergej che Najmiddin Mavlaynov rende perfettamente nella sua statura antieroica, canto spiegato e interpretazione tutta sul personaggio. Efficacissima (e applauditissima) la caricatura del suocero Boiris che mette a segno, con una voce sempre a fuoco, Alexander Roslavets. Zinovij, il marito che finisce ucciso in cantina, è Yevgeny Akimov. Lunga, lunghissima la locandina, dove , tra coristi scaligeri – e la prova del coro di Alberto Malazzi è come sempre efficacissima – e allievi dell’Accademia, si fanno apprezzare la Aksin’ja di Ekaterina Sannikova, il Sergente di Oleg Budaratskiy, la Sonetka di Elena Maximova, il contadino di Alexabder Kravets e l’insegnante di Vasyl Solodkyy. Tutti depongono. Tutti dicono la loro versione dei fatti in commissariato. Dove Katerina viene portata, cappotto e velo da sposa ancora in testa, dopo essere stata arrestata durante la sua festa di nozze – il sergente le fa trovare come regalo le manette, dettaglio di uno spettacolo, quello di Barkhatov, dove niente è lasciato al caso. Sceneggiatura millimetrica. Che torna dove era partita. Il cerchio si chiude. E si apre uno squarcio onirico. Una visione straniante, con quella camionetta, camionetta di guerra, che rompe la parte del ristorante.  Con gli invitati alle nozze che guardano il finale, la deportazione, come fosse un reportage di cronaca o di guerra di quelli che si vedono oggi in tv. Come noi che siamo in platea. E sgraniamo gli occhi quando Katerina trascina con sé nel rogo Sonetka. Ma che quando tutto è finiti, cambiano canale. 
I deportati riprendono la marcia. Un morto o due in più cosa saranno, dicono le coscienze ormai anestetizzate. Fuori piazza Scala – o piazza Gaza – è vuota. La bandiera ucraina resiste. Sul telefonino compare la notizia di un'altra notte di combattimenti. E le ultime di cronaca raccontano gli sviluppi dell’ennesima, drammatica stage familiare. Omicidio-sucidio. Mcensk non è poi così lontana.

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