venerdì 21 ottobre 2022
In “Svegliamoci!” il grande intellettuale francese se la prende con frammentazione del sapere e invadenza delle tecnoscienze. Le speranze? Essere creativi, puntare sull’improbabile
Il filosofo e sociologo francese Edgar Morin

Il filosofo e sociologo francese Edgar Morin - Giorgio Boato

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La crisi che stiamo vivendo crisi economica e politica, crisi di un modello di sviluppo incentrato solo sul neoliberismo, crisi sociale che fa esplodere le disuguaglianze e le povertà, crisi ambientale legata all’Antropocene, crisi antropologica e psicologica dopo la tragedia del Covid e lo scoppio della guerra in Ucraina - è in realtà una crisi più profonda: una crisi del pensiero. È questo l’assunto dell’ultimo libretto del grande filosofo e sociologo francese Edgar Morin, appena uscito da Mimesis col titolo Svegliamoci! (Pagine 80. Euro 10,00).

Il titolo fa riferimento alla presa d’atto del pensatore dello stato di difficoltà della sua patria, la Francia, dinanzi all’avanzare delle spinte nazionaliste con derive razziste degli ultimi anni. Tant’è vero che il primo capitoletto del volume è dedicato a una ricostruzione storica del conflitto permanente delle due France, quella umanista e quella reazionaria. I fondamenti democratici e universalisti posti dalla Rivoluzione del 1789 sono stati perennemente messi in discussione, come si è visto nei periodi della Restaurazione e della Repubblica di Vichy. Ciò nonostante, il sentimento di patria proprio dei suoi concittadini si è perlopiù legato a un senso di comunità e di umanesimo radicato nel rispetto dei diritti umani. Sino al tempo recente, quando «l’egemonia degli intellettuali di sinistra dopo la Liberazione (molti dei quali, illusi dall’Urss, dalla Cina o da Cuba, ne sono diventati gli "illusionisti") ha lasciato il posto a un’egemonia degli intellettuali di destra, portatori di tematiche identitarie». Una riflessione acuta che meriterebbe di essere approfondita allargando il discorso all’Europa tutta.

Ma come si diceva il discorso di fondo di Morin scava ancor più in profondità, facendosi provocare da un motto di Ortega y Gasset posto in epigrafe: «Non sappiamo cosa stia accadendo, ed è precisamente quanto ci sta accadendo». Nello smarrimento generale colui che è stato chiamato giustamente "il pensatore della complessità" invita a distinguere fra le "due ignoranze", quella buona, cioè il riconoscimento di misteri dovuti a fenomeni che non conosciamo, e una "cattiva", provocata dall’iperspecializzazione. «Questa complessità – egli sostiene –, nella quale crescita e decrescita divengono inseparabili, è talmente invisibile che esperti, economisti, tecnici, politici, accademici e intellettuali sono convinti di disporre di mezzi di conoscenza adeguati. Gli specialisti disdegnano ogni conoscenza globale, che considerano superficiale. Economisti e tecnici trovano certezza e compiutezza nei loro calcoli».

Poi Morin affonda ancor più i colpi: «A un livello più profondo, l’invisibilità della crisi del pensiero dipende dalla separazione e dalla frammentazione delle conoscenze, la cui riunificazione è considerata impossibile, rendendo quindi unilaterale, incompleta e di parte ogni considerazione relativa alla società, alla storia e alla crisi medesime. La cecità nei confronti della crisi in corso è dovuta a una concezione lineare e quasi meccanicista del divenire, alla convinzione che il futuro sia prevedibile. Confidando nel calcolo, si anestetizza continuamente l’imprevisto, il che ignora ciò che di incalcolabile c’è nelle nostre vite e nei nostri sentimenti».

Morin pensa all’invadenza della tecnoscienza e alle manipolazioni genetiche che consentono di intervenire direttamente sulla nascita e sulla morte. Non a caso se la prende con il transumanesimo e con il suo progetto di trasformazione dell’umano, con i suoi miti del prolungamento della vita umana senza invecchiamento e della creazione di una società che si pensa armoniosamente regolata dall’intelligenza artificiale. «Tutta la filosofia transumanista – spiega Morin – maschera il vero problema dell’umanità, che non consiste nell’aumento quantitativo dei suoi poteri ma nel miglioramento qualitativo delle condizioni di vita e delle relazioni fra gli uomini. La vera sfida non è cambiare la natura umana ma inibirne il peggio e favorirne il meglio».

Non si può ignorare il male presente nell’uomo: per dirla con termini cristiani, il peccato originale. Come diceva Pascal, la grandezza dell’uomo va di pari passo con le sue miserie e le sue infermità. Ma come porre rimedio alla crisi del pensiero? Morin non ha soluzioni prefabbricate e cerca di delineare alcuni campi di intervento che ritiene oggi imprescindibili, come quello del sapere e dell’istruzione da una parte e quello della solidarietà e dell’accoglienza dall’altra, nella consapevolezza che «ogni progresso è fragile», dato che la storia non procede mai in modo lineare. E che, come diceva Michel Serres, dopo aver inseguito i nostri sogni di dominio ora la questione è quella di dominare il dominio.

Si delineano le sfide: «Salvare il pianeta minacciato dal nostro sviluppo economico. Regolare e controllare lo sviluppo tecnico. Assicurare uno sviluppo umano. Civilizzare la Terra. Ecco delle prospettive grandiose in grado di mobilitare energie». E non mancano principi di speranza: «Il primo è puntare sull’improbabile. Spesso, in momenti drammatici della storia, i grandi avvenimenti salvifici sono stati inattesi». Come la vittoria dei greci sui persiani fra il 490 e il 480 a.C. e la nascita della democrazia o, venendo più vicino a noi, il crollo della dittatura sovietica nel 1989.

Altri elementi positivi sono secondo Morin la creatività della mente umana e l’impossibilità di durare all’infinito di qualsiasi sistema che trasformi gli individui e la società in macchine. Per fermare il ritorno degli incubi apocalittici occorre una «nuova politica umanista di salute pubblica» basata sul sapere e sull’etica, «una politica di civiltà che riporti umanità e convivialità nelle nostre esistenze», che umanizzi le amministrazioni e le tecniche e sviluppi la solidarietà, «una politica di riconoscimento della piena umanità dell’altro».

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