giovedì 24 ottobre 2019
Il teologo franco-russo impegnato per l’unità dei cristiani rivendica l’eredità spirituale dell’Oriente e dell’Occidente «Lo zelo serve, ma solo per combattere l’uomo vecchio dentro di noi»
Il teologo Alexandre Siniakov

Il teologo Alexandre Siniakov

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Divinoumanità, cocreaturalità, sobornost: sono alcune delle peculiari parole chiave che distinguono la teologia ortodossa. La prima indica il destino positivo dell’uomo, nel cui volto è stampato il sigillo della divinità, il suo splendore, come hanno rimarcato pensatori come Berdjaev e Florenskij o pittori come Rublëv. Con la seconda ci si riferisce alla condizione comune dell’uomo, degli animali e delle piante, di tutto il cosmo insomma, che è ripieno della presenza di Dio e che è finalizzato alla salvezza. Infine, sobornost sta a significare unità nel senso di cattolicità ed universalità, ma anche comunione dei santi. Questi tre concetti sono stati ben illustrati al pubblico occidentale e anche italiano da Olivier Clément. E ora tornano grazie a Alexandre Siniakov, che a Parigi dirige un seminario ortodosso su incarico del patriarcato russo ed è autore del volume Come folgore sorge da Oriente (San Paolo, pagine 190, euro 18), che in Francia è stato premiato quale miglior libro di spiritualità nel 2018. Appartenente alla comunità dei Vecchi Credenti di un gruppo di cosacchi emigrati in Turchia per scampare alle persecuzioni degli zar e poi rientrati in Russia dopo la Rivoluzione bolscevica, di , che è nato nel 1981 e quindi da bambino ha visto sgretolarsi il regime comunista, si è convertito da giovane e ha perfezionato la sua vocazione nel monastero di Ipatiev.

Ma la passione per le lingue l’ha presto spinto in Francia, dove ha studiato alla Facoltà di teologia domenicana di Tolosa, per poi stabilirsi a Parigi. Il libro «è una testimonianza della cattolicità della mia ortodossia», come precisa nell’introduzione, ove ribadisce il duplice attaccamento all’eredità spirituale dell’Oriente e dell’Occidente. Il suo miglior amico, il domenicano Hyacinthe Destivelle, conosciuto al convento Saint-Thomas, l’ha aiutato a studiare la lingua francese, così come lui gli ha insegnato il russo. Ora padre Hyacinthe lavora al Pontificio Consiglio per l’unità dei cristiani. La loro amicizia è il segno di un ecumenismo praticato nei fatti e non solo declamato a parole. «Gli ortodossi – dice Alexandre alla fine del volume – sospettano che io sia filocattolico e i cattolici mi vedono diverso da loro, ma questa situazione non mi preoccupa ». Per lui anche se divisa la Chiesa rimane una: non riesce a considerare irreversibile la separazione fra i cristiani, anzi ritiene il confessionali- smo, che esclude ogni ricerca dell’unità, uno dei mali del nostro tempo. E fa proprio il grido di Gregorio di Nazianzo che nel IV secolo scriveva: «Perché noi, discepoli della pace, ci facciamo una guerra senza tregue e senza pietà?». Un altro grande dottore della Chiesa dei primi secoli, Basilio di Cesarea, fu amicissimo di Gregorio e insieme si recarono all’Accademia di Atene per completare la loro formazione.

Proprio a Basilio si deve un libretto originale, Su come trarre profitto dalle lettere greche, che esprime la convinzione che gli scritti profani costituiscano uno stimolo culturale e spirituale imprescindibile anche per chi è votato allo studio della parola di Dio. Siniakov ha messo in pratica la lezione: sin da ragazzo, nella biblioteca del paesino del Caucaso dove è cresciuto, ha potuto incontrare le opere di autori come Hugo, Stendhal, Zweig, Mann, Poe e Chesterton. Letture da cui ha appreso ad affrontare in maniera nuova la questione Dio, che emergeva prepotentemente nei personaggi dei romanzi francesi, inglesi o tedeschi. E persino russi come quelli di Dostoevskij non facili da reperire ai tempi del comunismo. L’amore per le lingue e per la letteratura è stato l’incubatrice della sua conversione, tanto che ora può tranquillamente sentenziare: «Non riesco a non vedere in chi disprezza le lettere i cattivi operai che lapidano i messaggeri mandati dal padrone, preoccupato per il degrado della sua vigna. Bisogna accogliere i libri come si accolgono i poveri: vedendoli come degli inviati da Dio».

Parole che anche noi cattolici dovremmo accogliere e su cui anzi meditare, in un momento storico in cui nella nostra Chiesa c’è persino chi vuole accantonare lo strumento libro ai fini dell’evangelizzazione, puntando tutto sui social o sui tweet. La malattia contro la quale Siniakov, che tra i suoi maestri spirituali indica Lossky e Berdjaev, si scaglia è il clericalismo, perché «ci porta non tanto a manipolare con discrezione la parola di Gesù, bensì ad annientarla con la coscienza a posto». Si tratta di un male che evidentemente colpisce sia gli ortodossi che i cattolici, vista l’insistenza con cui papa Francesco vi fa riferimento. Per Siniakov i successori degli Apostoli, siano vescovi, preti o diaconi, non si devono considerare come un’élite spirituale, una sorta di potere separato, visto che c’è una sola dignità dei figli di Dio, «l’uguale dignità dei battezzati ». Il teologo e prete ortodosso non contesta affatto il ministero dei pastori della Chiesa: «Contesto il modo che esso ha di trasformarsi in superiorità sociale all’interno di comunità cristiane, rette idealmente dall’uguaglianza in Cristo di tutti coloro che le compongono».

Richiamandosi alla Gerarchia ecclesiastica di Dionigi l’Areopagita, egli definisce la comunione come un mettere in comune la santità: è questo il verso senso della cattolicità o, come la chiamano gli ortodossi, la sobornost. Ma per vincere il clericalismo ci vuole capacità di autocritica, ed è quanto Siniakov compie ricordando quando, subito dopo la sua conversione, ha trascorso un periodo di oscurantismo che lo portò addirittura a bruciare il romanzo Il Maestro e Margherita di Bulgakov, considerandolo una sorta di Vangelo secondo Satana. Ora riconosce di essersi comportato da vero zelota (come fa ancor oggi chi vuole restare ancorato alla tradizione idolatrando il passato), incapace di comprendere la satira fine dello scrittore, così ricca di humour e di bellezza. Allora compì «un autodafé nelle steppe del Caucaso», scrive con rimpianto e autoironia. E ammette: «L’unica lotta che esige tutta l’intransigenza e tutta la passione di cui la nostra natura è capace è la lotta contro se stessi. Lo zelo ci vuole per il cristiano, ma va usato per combattere l’uomo vecchio che sopravvive in lui».

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