domenica 17 novembre 2019
Juri Nervo, educatore 43enne, ha creato un’oasi di pace nell’ex prigione Le Nuove a Torino: «Gabbie e catene sono in tutti noi: il silenzio e la preghiera ci portano a quell’abbraccio di misericordia»
L’Eremo del silenzio all’interno dell’ex carcere Le Nuove a Torino

L’Eremo del silenzio all’interno dell’ex carcere Le Nuove a Torino

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Non un eremitaggio depotenziato, un “vorrei ma non posso” costruito sull’imitazione dei padri del deserto, ma una risposta concreta alle esigenze di persone, di laici che vivono nel mondo e vogliono fare esperienza di silenzio e di preghiera. Qualcosa di nuovo, di originale, di adatto alle nostre città. Nasce da qui l’idea che ha condotto Juri Nervo, nel 2009 a fondare a Torino “L’eremo del silenzio” il cui motto è: «Stare davanti a Dio per stare meglio davanti agli uomini».

Le parole chiave sono silenzio, deserto, preghiera, accoglienza, perdono. «Deserto - scrive Juri nella Regola che si è dato nel 2016 - è la ricerca del Padre nel silenzio». E non è una fuga dalla realtà perché, aggiunge, «Non è fuggendo che trovo il padre più facilmente, ma è cambiando il mio cuore che vedrò le cose diversamente. Il deserto nella città è possibile solo a questo patto: vedere le cose con un occhio nuovo, toccarle con uno spirito nuovo, amarle con un cuore nuovo... perché la realtà è il vero veicolo sul quale il Padre cammina verso di me».

La Regola di Juri la si può trovare nel libro che lui stesso ha scritto con Ilaria Nava: L’eremo del silenzio. Cercare la pace dentro il rumore della città (San Paolo, pagine 153, euro 15). Lui ha 43 anni ed è sposato con Luciana, insegnante di religione. Lo abbiamo incontrato a Torino, nell’ala femminile dell’ex carcere Le Nuove, oggi diventato Museo. L’Eremo sorge nelle celle edificate per la detenzione delle terroriste rosse. Sono adiacenti alla torretta del muro di cinta sotto la quale il 15 dicembre 1978 un commando assassinò i poliziotti Salvatore Lanza e Salvatore Porceddu. Oggi, all’ingresso dell’eremo, una piccola tavola alla parete ricorda che la bellezza e il silenzio sono fragili e vanno custoditi e condivisi nella preghiera.

Come mai un eremo in un carcere?

«A conclusione degli studi, diventato educatore, apro un’associazione vicina al mondo salesiano e veniamo invitati a lavorare con i giovani del carcere minorile Ferrante Aporti. Una scuola di vita. Lì ho capito che puoi aprirti alla conoscenza degli altri solo se ammetti l’errore e il bisogno di essere perdonati. Come fa a cambiare vita uno che ha sbagliato se noi lo condanniamo in partenza? Lì è nato il mio cammino e ha iniziato a maturare l’idea dell’eremo. Qualche tempo dopo ho scoperto Le Nuove. Sono diventato amico del direttore del Museo Felice Tagliente che mi ha affidato questo luogo. Qui, nelle celle che ho pulito e ridipinto ho cominciato a vivere il silenzio che pian piano ha preso forma con la suggestione dell’Abbraccio benedicente di Rembrandt. Nel luogo in cui le persone venivano relegate dal giudizio della società ho scoperto che carcere, gabbie e catene sono in ognuno di noi: prendono forma dalle ferite della vita, le creiamo con le nostre mani, gli altri le costruiscono intorno a noi. Ho capito che il silenzio e la preghiera sono la strada per giungere a quell’abbraccio di misericordia che è il segreto della vera libertà. Quella strada è il fondamento dell’esperienza dell’eremo».

Che nel tempo è diventato un riferimento...

«Qui sono passate persone di tutti i tipi che chiedono ascolto e un punto saldo da cui ripartire. Persone che sentono di dover cercare qualcosa ma non sanno cosa e sperano di trovarla negli incontri. Io stesso a un certo punto della mia vita ero stufo di risposte approssimative, ero stufo dell’andare in chiesa senza profondità. Così ho cominciato a frequentare l’Istituto superiore di scienze religiose... Quando da qui sono arrivate le risposte che cercavo e quell’abbraccio di misericordia che smonta ogni forma di giudizio e di pregiudizio ho interrotto il percorso di studi. Ho capito che cosa vuol dire quella frase di Agostino nelle Confessioni: "Tardi ti amai... Sì, perché Tu eri dentro di me e io fuori. E lì ti cercavo". Viviamo nelle nostre gabbie desiderando l’infinito. E quell’infinito è già dentro di noi».

La strada per trovarlo?

«Fare silenzio. Chi viene qui trova accoglienza, condivisione e un invito al silenzio. Il silenzio costringe a fare i conti con te stesso. Per questo tanta gente cerca il rumore. Nel rumore siamo bravi a illudere noi e gli altri su quello che siamo. Ma nel silenzio non puoi mentire. Ti mette a nudo e sei obbligato a confrontarti col tuo dolore, a essere vero. Allora riesci a sentire anche un richiamo lontano, capisci che se il dolore è “finito”, quel richiamo è infinito... Nel momento in cui riconosco il mio errore accetto e cerco l’azione di Dio».

Quando ha deciso di darsi una Regola?

«Quando ho capito che diventi pienamente capace di accogliere se sai perfettamente chi sei, se conosci i tuoi limiti, le paure che hai nel superarli. La regola fornisce le giuste abitudini per strutturarti e stabilizzarti in quello che sei».

E poi?

«È stato un percorso lungo. È stata scritta fra il 2014 e il 2016 e mi ha seguito don Paolo Ripa che all’epoca era referente della vita consacrata nella diocesi di Torino (anche l’arcivescovo Nosiglia è passato dall’Eremo). Il punto di svolta è però arrivato nel 2015. Quell’estate, come sempre, sono andato qualche settimana in Calabria nel paese di mia moglie. In quei giorni ho incontrato l’eremita Frédéric Valmorel, a Caulonia che mi ha invitato a seguire l’originalità della mia vocazione. Quindi, essendo il mio eremo in un carcere, mi ha consigliato di conoscere le suore Domenicane di Betania fondata dal beato Lataste. Mi sono informato e ho scoperto che l'unica casa che hanno in Italia è proprio a Torino. Sono andato e ho conosciuto suor Silvia, che mi ha raccontato di come è nata in padre Lataste l’idea di fondare una congregazione per affiancare e aiutare i carcerati: era andato a parlare di Eucarestia in un carcere femminile e ne era uscito sconfitto in tutti i suoi pregiudizi. Molte delle prime suore erano proprio ex carcerate. Con suor Silvia è nata una collaborazione. Sua è l’idea di organizzare una volta al mese un’Adorazione eucaristica nell’Eremo (nella cappella dell’ala femminile dell’ex carcere) guidata dagli scritti di padre Lataste. Adesso, come lui penso che «Dio non ci chiede che cosa siamo stati. Egli è toccato solo da ciò che siamo. Non importa essere stati puri o virtuosi se non lo siamo più; non importa essere stati colpevoli se abbiamo riconquistato la virtù».

Le Nuove sono il carcere dove ha lavorato come cappellano il francescano padre Ruggero Cipolla, un anticipatore del percorso di reintegrazione dei carcerati.

«Mi sono molto ispirato a lui. Così nel 2015 prende vita, con l’amico Matteo Defedele l’associazione 'Essere umani Onlus' per l’assistenza e la sensibilizzazione sui problemi delle carceri e della sofferenza che disumanizza partendo dai concetti di giustizia, legalità, accoglienza, perdono, rieducazione. E mi sono stupito quando qualche tempo dopo la nascita dell’Eremo mi è capitato di incontrare un francescano, padre Zeno, col quale abbiamo organizzato alcuni incontri su san Francesco. Poi abbiamo cominciato a fare incontri sui Vangeli, sulle Lettere di Paolo... Ogni giovedì sera... Questo succede quando ti affidi...»

A che ora comincia la sua giornata?

«Sveglia alle 5,50. Alle 6.30, in tram, faccio le Lodi. Alle 7 vado a Messa nella chiesa dei padri della Consolata. Alle 7,40, all’Eremo, comincia la giornata di lavoro e di incontri sempre sul filo della Liturgia delle ore e della preghiera del cuore. Non uso l’auto e mi sposto solo a piedi e in tram per dedicare più tempo alla meditazione, agli incontri, alle cose che capitano, al progetto che Dio ha per me. In un mondo che corre riscopro la lentezza. In questo modo riesco a liberarmi di tanto superfluo... Il mio progetto è diventare santo cercando di riempire con l’amore ogni passo della vita...»

E sua moglie?

«Lei è fondamentale, mi aiuta. Viene agli incontri, alle preghiere, sostiene la mia Regola. Condividiamo la vocazione al matrimonio, ma non quella all’eremo, che pure, lo so con certezza, solo insieme a lei poteva nascere».

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