martedì 5 maggio 2015
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È possibile oggi ridere parlando di Islam? Divertirsi insieme a una comunità di musulmani alle prese con gli ostacoli dell’integrazione, frizioni culturali, donne che danno filo da torcere, Imam troppo inesperti e integralisti assai improbabili? La risposta è nella commedia Pitza e datteri, firmata dal regista curdo iraniano Fariborz Kamkari, ormai adottato dall’Italia, che nel 2011 aveva realizzato in Iraq il drammatico I fiori di Kirkuk, il primo film sul genocidio curdo perpetrato negli anni Ottanta dal regime di Saddam Houssein. Prodotto da Far Out Films di Fabrizia Falzetti con Adriana Chiesa Enterprises e Acek, distribuito nella sale da Bolero il 28 maggio e musicato dall’Orchestra di Piazza Vittorio, il film è stato già sul set un perfetto esempio di integrazione multiculturale. Tutto comincia da una moschea perduta. La moschea dove i musulmani di Venezia, guidati dal “presidente” Karim (il pakistano Hassani Shapi) si riuniscono per pregare e che viene trasformata in un salone di bellezza dalla turca Zara (la franco-africana Maud Buquet), che deve pur sopravvivere dopo che suo marito l’ha lasciata piena di debiti. Per aiutare la comunità a risolvere il problema arriva un giovane Imam afgano (Mehdi Meskar, calabrese, magrebino e parigino cresciuto a Treviso), ma tutti i goffi tentativi per rientrare in possesso del luogo di culto falliscono miseramente. La soluzione arriverà da una persona alla quale nessuno di loro avrebbe mai pensato. «L’idea del film, scritto prima de I fiori di Kirkuk – ci racconta Kamkari, attualmente impegnato nella realizzazione tra Italia, Grecia, Russia, Turchia e Israele di una serie di 24 documentari sull’arte bizantina – nasce da una storia vera e molto divertente, quella di un Imam afgano trasferitosi in Australia e diventato campione nazionale di surf. Una vera storia di integrazione. Viaggiare e vivere in altri paesi è un’occasione importantissima per gli uomini che a contatto con culture diverse hanno la possibilità di avere una prospettiva nuova sulle cose e trasformarsi, come succede a Saladino, un uomo del deserto prima sopraffatto, poi affascinato da tutta quell’acqua e dalla bellezza di Venezia». Il conflitto vissuto dai musulmani di Venezia è tutto interno alla comunità e ogni sforzo di trovare una soluzione si trasforma in un comico disastro. «Il conflitto non riguarda solo i fedeli e la parrucchiera, ma anche gli uomini con le rispettive mogli e i figli che si sentono italiani. Agli uomini fa comodo seguire le vecchie regole, ma è dimostrato che le donne si adattano velocemente ad altre società: imparano presto la lingua e trovano lavoro molto prima dei loro mariti». Nessuna paura poi che la raccolta di pietre per il linciaggio della bella Zara o l’uso di pugnali e fucili per una radicale risoluzione del problema offendano quei musulmani che, perfettamente integrati nel nostro paese, vivono con disagio l’immagine violenta che di loro viene data nel mondo. «Ho scelto i toni della commedia per guardare questo mondo, il mio mondo, con una certa distanza. E a questo vorrei invitare anche il pubblico. La commedia è la migliore possibilità di trattare un tema così delicato, spesso manipolato dalla politica, con un certo distacco, senza panico. Ironia e autoironia fanno parte della tradizione culturale islamica e mi sembrava il momento giusto per creare un po’ di simpatia, raccontare i problemi della mia comunità con un sorriso e la mano tesa. Penso che questo farà piacere ai musulmani come me, una grande maggioranza presa in ostaggio da una minoranza di fanatici, violenti e integralisti. Il dialogo è l’unica soluzione, come sostiene papa Francesco: la sua voce così necessaria in questo momento è molto ascoltata nel mondo islamico». «La comicità – continua il regista – nasce quando Saladino pensa di applicare regole tribali che forse non funzionano neppure in Afganistan in una situazione completamente diversa: una lapidazione a Venezia ha del ridicolo! Arriva in Occidente pensando che ci sia solo un modo per interpretare la propria fede, ma l’esperienza più importante è che scoprire, e noi con lui, che Dio è molto più grande di quello che pensa. È amore, bellezza, rispetto per le donne. Il film racconta che si può essere religiosi e moderni al tempo stesso, le due cose non sono in contraddizione». A interpretare il personaggio più complesso e spinoso, Bepi, l’unico fanatico del gruppo, Kamkari ha voluto Giuseppe Battiston: «Lui è stato fondamentale per interpretare un uomo molto sensibile e con problemi di appartenenza. È diventato musulmano non per un’esigenza religiosa ma perché è stato rifiutato dalla società a cui apparteneva e ha trovato nella comunità musulmana una nuova fratellanza. Ma diventa un fanatico perché ha bisogno di essere contro e usa la religione come pretesto per sfogare rabbia e frustrazione». Venezia è sempre stata l’unica città dove ambientare questa storia. «Storicamente luogo di incontro tra Oriente e Occidente, rende credibile con la sua bellezza la trasformazione dell’Imam. E poi la sua architettura la rende quasi irreale, come fosse costruita dalla fantasia, in sintonia con il film che racconta un mondo ideale, suggerito dal titolo, un piatto che non esiste ma che diventa occasione di incontro».
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