
Nicola Sorrentino
«La carne coltivata? È molto simile a quella tradizionale...». Lo dice il professor Nicola Sorrentino, specialista in dietologia e idrologia, autore del libro La mia dieta mediterranea. La madre di tutte le diete (Salani, pagine 240, euro 18,00), che da sempre promuove - per vivere bene - la dieta mediterranea abbinata a movimento fisico e soprattutto all’assunzione di tanta acqua. La carne coltivata, chiamata anche carne “in vitro”, è un alimento prodotto in laboratorio a partire da cellule animali, senza quindi l’allevamento. Nonostante le sfide tecnologiche ed economiche, questa innovazione rappresenta una potenziale soluzione per soddisfare la crescente domanda globale di carne in modo sostenibile. In Italia, la produzione e commercializzazione di questo prodotto sono state vietate con una recente legge, ma il dibattito rimane aperto.
«Da un punto di vista nutrizionale, la carne coltivata è molto simile a quella tradizionale. Si parte da cellule animali vere, quindi non parliamo di un sostituto vegetale, ma di carne vera, solo ottenuta in modo diverso. Le proteine e gli amminoacidi essenziali sono gli stessi. La differenza è che, in laboratorio, si può intervenire sulla composizione: per esempio ridurre i grassi saturi o aumentare quelli buoni, come gli omega-3. Alcuni micronutrienti, come vitamina B12 o ferro, vanno aggiunti durante il processo, ma il risultato finale resta paragonabile. Inoltre, il prodotto è più pulito: niente antibiotici, meno contaminazioni. In sintesi, può essere una vera alternativa alla carne convenzionale, con margini di miglioramento interessanti».
In una società sempre più attenta alla sostenibilità, quali potrebbero essere i reali vantaggi ambientali della carne sintetica rispetto a un modello agricolo più “naturale” ma ben strutturato, come quello della dieta mediterranea?
«La carne coltivata può portare vantaggi ambientali significativi, soprattutto se paragonata agli allevamenti intensivi, che consumano moltissime risorse e producono forti impatti ambientali. Ridurre il numero di animali allevati vuol dire meno emissioni, meno consumo di acqua e meno suolo sottratto alla biodiversità. Detto questo, non è sempre automaticamente più sostenibile: molto dipende da come viene prodotta e da quanta energia serve. Se parliamo invece della dieta mediterranea autentica — ricca di vegetali, legumi, cereali e con poco consumo di carne — siamo di fronte a un modello già naturalmente equilibrato e sostenibile. La carne coltivata può essere un aiuto per ridurre l’impatto delle diete ricche di proteine, ma non sostituisce uno stile alimentare sano e radicato come quello mediterraneo».
La dieta mediterranea che lei promuove da anni è fondata su equilibrio, stagionalità e tradizione: l’introduzione di un alimento altamente tecnologico come la carne sintetica rappresenta una discontinuità o può essere armonizzata con questi principi?
«Può sembrare una discontinuità, certo. Ma attenzione: la tradizione non deve essere intesa come rigidità. Se una tecnologia può contribuire a rendere il nostro sistema alimentare più sostenibile, senza rinunciare alla qualità e al buon senso, allora può trovare spazio. La carne coltivata non sarà mai al centro della dieta mediterranea, ma potrebbe diventare un’alternativa occasionale, soprattutto per chi consuma troppa carne. L’importante è restare fedeli ai principi di varietà, moderazione e rispetto dell’ambiente: sono questi i veri capisaldi della dieta mediterranea».
A livello di salute pubblica, quali sono secondo lei le domande aperte o i rischi da monitorare legati all’adozione su larga scala della carne sintetica? Ci sono aspetti ancora poco discussi?
«Le domande aperte sono ancora molte. La prima riguarda la sicurezza a lungo termine: parliamo di un prodotto nuovo e servono studi indipendenti per valutarne l’impatto sul medio e lungo periodo. Un’altra questione è la trasparenza: cosa viene aggiunto durante la produzione? Quali additivi, quali nutrienti? Più il processo è complesso, più è importante garantire chiarezza al consumatore. E poi c’è un aspetto sociale ancora poco dibattuto: chi controllerà questa nuova filiera? Se la produzione resta in mano a poche aziende hi-tech, rischiamo di ridurre la diversità alimentare e di accentuare disuguaglianze. Insomma, va introdotta con cautela, regole precise e monitoraggio costante, non solo dal punto di vista nutrizionale, ma anche ambientale, etico e sociale».
Oltre agli aspetti tecnici e ambientali, crede che ci sia anche una questione simbolica o psicologica nel mangiare carne non proveniente da un animale vivo? Cambierà il nostro rapporto con il cibo?
«Assolutamente sì. Mangiare carne ha sempre avuto una dimensione simbolica, culturale, perfino rituale. Sapere che quel cibo viene da un essere vivente ha influenzato il nostro rapporto con l’alimentazione per secoli. La carne coltivata spezza questo legame: è un prodotto reale, ma senza storia, senza origine visibile. Per alcuni sarà un sollievo, per altri un ostacolo psicologico. In fondo, mangiare non è solo nutrirsi: è anche identità, ricordo, relazione. Forse le nuove generazioni si adatteranno più facilmente, ma servirà tempo, informazione e fiducia».
Se dovesse immaginare una “nuova” piramide alimentare mediterranea per le prossime generazioni, la carne sintetica avrebbe un posto? E se sì, in che misura e con quale ruolo?
«Sì, ma in punta di piedi. La base resterebbe la stessa: verdure, legumi, cereali integrali, frutta, olio d’oliva. Alimenti semplici e stagionali. La carne coltivata, se sostenibile e sicura, potrebbe trovare spazio nella parte alta della piramide, tra gli alimenti da consumare con moderazione. Non sarebbe il cuore della dieta, ma un’alternativa strategica per chi vuole ridurre l’impatto ambientale senza rinunciare al gusto. L’innovazione non deve cancellare la tradizione, ma può servire a proteggerla, se usata con equilibrio».