martedì 5 giugno 2018
Flauto e voce del '68. Parla il leader assoluto della band più longeva del rock. Il 17 luglio a Molfetta via al tour italiano in cui verrà presentato l’album antologico “50 for 50”
Ian Anderson, 70 anni, voce e flauto dei Jethro Tull

Ian Anderson, 70 anni, voce e flauto dei Jethro Tull

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Cinquant anni di carriera musicale per una band rock sono tanti, e non per tutti visto che gli scioglimenti sembrano un destino ineluttabile per molti (se non altro messi in atto dai gruppi per riapparire magicamente grazie all’escamotage della re-union). Dopo i Rolling Stones, i Jethro Tull sono il gruppo più longevo della storia del rock e quest’anno festeggiano il mezzo secolo di presenza sulle scene con un grande tour che toccherà l’Italia in luglio nelle città di Molfetta (il 17) Porto Recanati (il 18), Roma (il 19), Cagliari (il 21), Milano (il 23) e Firenze (il 24), e con un triplo Cd dal titolo 50 for 50 che raccoglie appunto cinquanta successi, da Aqualung a Thick as a Brick, da Songs from the Wood a Budapest. Ora il trucco di questa lunga vita c’è e si chiama Ian Anderson, il fondatore della band, tenace settantenne che ancora suona il flauto su una gamba sola, e anche l’unico superstite oggi del nucleo originario, che è riuscito negli anni a tenere in piedi il nome dei Jethro anche attraverso il suo lato pratico di manager capace di esprimersi professionalmente persino nella gestione di un allevamento di salmoni o come pilota di aerei.

Mister Anderson, durante questi cinquant’anni, molti membri della band hanno abbandonato e altri sono subentrati. Lei è il solo punto fermo. A questo punto possiamo dire che Ian Anderson è i Jethro Tull?

«Jethro Tull sarebbe prima di tutto il nome del più importante agronomo del Settecento, l’inventore della seminatrice meccanica e quindi figura iniziale dell’agricoltura moderna… Ma probabilmente oggi nell’immaginario collettivo il nome è più collegato al nostro gruppo. La band originale nata nel 1968 era di quattro elementi incluso me e man mano, negli anni, la famiglia si è allargata, accogliendo nuove persone. Certo, il gruppo ha sempre suonato la musica che ho scritto io e inciso i dischi che ho registrato come produttore… Alla fine sono stato anche l’amministratore dei Jethro Tull, avendo molto senso pratico. Quindi sì, in effetti, il successo dei Jethro Tull è strettamente legato alle cose che ho fatto io, e non posso che esserne felice».

Esiste un collegamento tra il nome di Jethro Tull e il tipo di musica che fate?

«No. Nell’ufficio dell’agente in cui ci trovavamo nel 1968, cercando ancora di decidere come chiamarci definitivamente, c’era un libro di storia inglese; aprimmo a caso e venne fuori il nome. Suonava bene perché non dava l’impressione di appartenere a una persona reale. In realtà pensavamo fosse un nome provvisorio, come gli altri, ma come abbiamo iniziato a fare dischi e concerti la stampa ci ha notato; si cominciava a parlare, e bene, di noi e cambiarlo a quel punto sarebbe stato un errore».

Molte vostre canzoni sono considerate dei classici. Però: Bach è un classico, Beethoven è un classico, i Beatles sono ormai classici… Cos’è un classico?

«Dipende dai punti di vista. Direi a naso che un pezzo diventa classico quando le persone lo riconoscono come tale (mi vengono in mente Smoke on the Water per i Deep Purple o Stairway to Heaven dei Led Zeppelin, la Quinta o la Nona di Beethoven). E certamente anche i Jethro Tull hanno dei classici. Però dal mio punto di vista, di musicista che le canzoni le fa, un classico è il pezzo che ritengo più importante per me e che credo abbia una vita infinita, non coincide per forza con quello più popolare».

Quindi non si nasce “classici”, ma si diventa…

«Non credo che qualcuno possa decidere di realizzare un classico intenzionalmente. Forse i musicisti classici compongono intendendo scrivere un lavoro che superi il precedente. Ma una canzone, un pezzo come Smoke on The Water, che è pura ispirazione casuale (dal razzo sparato a un concerto a Montreux), è soltanto un altro giorno di lavoro, un giorno qualsiasi in ufficio, andato particolarmente bene».

Sa dare una definizione della vostra musica? Chi dice folk, chi progressive…

«Nel 1969 lessi su una rivista musicale, in riferimento all’album Stand Up, la definizione “progressive rock music” e la cosa mi piacque, mi sembrava la miglior descrizione per ciò che stavo facendo, ossia musica rock in cui introducevo elementi di musica classica, etnica e del cinema. Mi sono trovato bene con questa definizione prima che il genere diventasse troppo magniloquente e resta comunque lo stile rock fatto dai musicisti più intelligenti che suonavano gli strumenti come andavano suonati».

Lei è un sofisticato flautista, molto apprezzato anche dagli interpreti classici. Come ha imparato?

«Ero un chitarrista da adolescente, ed ero bravo. Poi ho ascoltato Eric Clapton nei Cream e ho pensato che non avrei mai potuto raggiungere il suo livello. Così ho mollato la chitarra elettrica per un paio d’anni. Ho venduto la mia Fender Stratocaster per comprare un paio due microfoni, ma poi notai sul muro del negozio di strumenti musicali un flauto. Dissi: “voglio uno di quelli!”. Venne spontaneo riferirmi a uno strumento che sembrava così portatile. Ho iniziato a nell’estate del ’67 che non sapevo fare neanche una nota, ma non appena capii come fare - e cioè molti mesi dopo andai piuttosto spedito e l’anno successivo suonavo. Diventò un tratto distintivo della band: “i Jethro Tull sono quelli col flauto”, si diceva, e questo servì per imporci rispetto ai soliti con la chitarra elettrica in evidenza... E del resto io trattavo il flauto come un chitarrista rock tratta il suo strumento, con i riff, gli assolo e movenze particolari. Imparai poi la tecnica di cantare e parlare dentro il flauto, in modo da ottenere un suono più aggressivo, ispirandomi al sassofonista Roland Kirk».

Si dice che oggi non c’è paragone con la musica rock degli anni ’60 e ’70. È vero?

Sì, ma questo perché il mondo in quegli anni stava cambiando radicalmente. Adesso, se escludiamo la tecnologia, le cose non sono molto diverse da cinquanta anni fa. Non è che non ci siano più cose nuove e belle nella musica, è che ci vuole più tempo; i mutamenti epocali non avvengono a distanza di pochi anni e oggi viviamo ancora i retaggi di quell’epoca di forte cambiamento che sono stati gli anni ’60 e ’70. I Pearl Jam, negli anni ’90, dissero che un grande album ispiratore per loro fu il nostro Stand Up; Ed Sheeran è l’odierno James Taylor».

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