venerdì 25 febbraio 2022
L’idea dello scorrere delle epoche instaurata dal nazismo è il culmine del lungo processo al centro del volume ampio ed erudito di Christopher Clark
Johann Georg Ziesenis, 'Ritratto di Federico II', 1763

Johann Georg Ziesenis, 'Ritratto di Federico II', 1763 - archivio

COMMENTA E CONDIVIDI

Un’enorme «campana della vita» batte il rintocco ogni cinque minuti per annunciare la nascita di nove nuovi tedeschi. Al di sotto di essa una clessidra si riempie di sabbia per significare che in quello stesso lasso di tempo sette tedeschi sono morti. Saldo positivo di due. L’installazione che lo scrittore svizzero Max Frisch vede nel 1935 a Berlino nella mostra nazista 'Il miracolo della vita' è solo uno degli esempi del modo in cui il nuovo regime scandì la propria concezione del tempo. Un tempo astorico, segnato dalla centralità della razza ariana. L’idea dello scorrere del tempo instaurata dal nazionalsocialismo è il culmine di un processo storico al centro di I tempi del potere. Concezioni della storia dalla Guerra dei Trent’anni al Terzo Reich (Laterza, pagine 304, euro 28,00), volume ampio ed erudito dell’australiano Christopher Clark, regius professor di Storia all’Università di Cambridge, già autore di un saggio su come si arrivò alla Seconda guerra mondiale ( I sonnambuli, sempre per Laterza). Specialista di storia tedesca, l’autore si concentra su quattro momenti delle vicende di quel Paese, dal Seicento al Novecento. Ma delinea, sul rapporto tra regimi di temporalità e regimi politici che li plasmano (e ne sono plasmati), un quadro che arriva fino a noi e investe il rapporto tra storiografia, potere decisionale e concezione dello Stato. Una vera e propria «cronopolitica» che, avverte Clark, «non è in declino e l’appello a panorami temporali immaginati rimane uno degli strumenti chiave della comunicazione politica». Diversi gli esempi dell’attualità che cita: la campagna per la Brexit, condotta rievocando i fasti imperiali britannici e, di conseguenza, «animata da un appello a un passato idealizzato nel quale 'i popoli di lingua inglese' avrebbero dominato senza sforzi il mondo intero». Poi, il Make America great again di Donald Trump, che interrompe la narrazione progressiva di un popolo che si è sempre sentito avanguardia e faro della storia. Dietro la narrazione di Trump stava, almeno fino al licenziamento, Steve Bannon con la sua idea che per le nazioni ci siano cicli storici di centinaia di anni interrotti da svolte repentine. Infine, in altri Paesi che stanno conoscendo svolte “populiste”, come Polonia e Ungheria, sostiene lo storico australiano, «si procede a fabbricare nuovi passati per sostituire vecchi futuri». Questo è stato da sempre il tentativo dei detentori del potere, certo. Ma sulla scorta degli studi di Reinhart Koselleck, secondo il quale nel secolo dal 1750 al 1850 ci fu un profondo mutamento nella coscienza storica dell’Occidente nel senso di una successione travolgente di eventi, Clark si concentra su quattro epoche. Nelle quali non si cercò tanto di imporre un nuovo ordine di computo temporale – che ci fu sia con il 'calendario repubblicano' della Rivoluzione francese, sia nel comunismo – quanto di instaurare nuove concezioni di tempo anche in contrasto con altre (e sulla scorta di pensatori come Pufendorf, Voltaire, Hegel e Heidegger). Quattro epoche viste attraverso la lente del microcosmo prussiano-tedesco. Le prime due precedono la svolta individuata da Koselleck. Il primo protagonista della carrellata è, infatti, Federico Guglielmo, grande elettore del Brandeburgo, salito al trono nel 1640. Predr in mano uno Stato in crisi dopo la Guerra dei Trent’anni e animato da divisioni tra statarelli e di tipo confessionale. In quelle condizioni il sovrano tenne le redini dello Stato e cercò di liberarlo «dai vincoli della tradizione per così poter scegliere liberamente tra i vari futuri possibili». In una sorta di pendolo tra epoche, fu opposto l’atteggiamento del pronipote Federico II di Prussia (1712-1786), il roi philosophe che Clark preferisce appellare roi historien, poiché fu l’unico monarca prussiano ad aver scritto una storia dei propri territori. Con lui si assiste (pur vivendo nella temperie illuminista votata all’idea della storia come susseguirsi progressivo di stadi sempre nuovi) a «una forma di temporalità neoclassica, stazionaria» – il suo riferimento era l’antica Roma – nella quale «predominava un’idea di permanenza immutabile del tempo». Conservatore nella gestione dei fermenti sociali, ormai molto sopiti rispetto ai tempi del bisnonno, concepiva lo Stato (del quale si poneva a fianco, non come 'manovratore') come una necessità, non come motore del cambiamento. Si arriva a Bismarck, l’artefice dell’unità tedesca, definito «traghettatore sul fiume del tempo». Questi visse nell’idea di storia lineare e proiettata in avanti, portato della Rivoluzione francese. Ma – in un tempo segnato dalla Rivoluzione del 1848 – ebbe da un lato un’incrollabile fede nella solidità della monarchia come garante di stabilità in rapporto alla società civile. Dall’altro visse il suo essere decisore politico come un compito segnato dal cambiamento e dall’urgenza delle novità (ade esempio l’influsso della stampa). Come in un partita a scacchi per lui si apriva uno spettro di decisioni pressoché infinite da prendere in 'momenti decisivi'. Alla fine della sua parabola e di quella dell’Impero, si assiste dal 1918 alla crisi della coscienza storica. Crisi che, secondo Mircea Eliade, portò al «terrore della storia» e alla fuga da essa. Ed eccoci al punto di partenza. Al regime hitleriano, che avviò una «radicale rottura» con l’idea di storia bismarckiana. Se questa era «una sequenza dalla struttura complessa e proiettata in avanti, composta da situazioni sempre nuove e non preordinate», quella nazista si fondava sulla «profonda identità tra il presente, un remoto passato e un lontano futuro». Inteso in senso millenaristico, con la profezia a sostituire la contingenza e la battaglia all’ultimo sangue a scalzare la partita a scacchi. Una concezione, sostiene Clark, diversa da quella degli altri due totalitarismi, fascismo e comunismo. L’autore, pur ammettendo le innegabili somiglianze nelle 'liturgie' pubbliche, tende su questo punto a distinguere il nazismo dal concetto di 'religione politica' che diversi studiosi, tra cui l’italiano Emilio Gentile, hanno applicato ai regimi dittatoriali del Novecento. Quello mussoliniano cercò di instaurare una nuova temporalità incentrata sul partito come supremo agente storico. Quello staliniano aveva tentato, senza successo, di sostituire il calendario ortodosso. Ma entrambi concepivano ancora la storia come «un’avanzante macchina del progresso» Il nazismo invece la negava. E quando, da subito, volle instaurare un suo 'culto dei martiri' – come si vede bene in una mostra ad Halle, una delle tante dedicate alla Rivoluzione in camicia bruna – cercò di distinguere spazialmente il momento della rimembranza da quello caotico dei fatti storici. Due piani separati da una cesura. Non così il fascismo, che in un analogo sacrario alla Mostra della Rivoluzione fascista di Roma (1932-1934) presentò la conquista del potere e i suoi 'martiri' come compimento di un processo, senza indebolire la storia. Che come si sa è maestra di vita. Ma anche ancella del tempo. E del potere che lo plasma.

© Riproduzione riservata
COMMENTA E CONDIVIDI

ARGOMENTI: