lunedì 6 maggio 2013
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Se consideriamo come un caso a parte quello di Ingmar Bergman con la sua trilogia sul silenzio di Dio (Come in uno specchio, Luci d’inverno, Il silenzio, 1961-1963), tanto moderna e attuale quanto angosciosamente senza sbocco, priva di fiducia nella grazia e in Gesù come suo portatore, sono quattro in definitiva i grandi registi in cui la storia del cinema ha verificato la possibilità di esprimere con un linguaggio autonomo il trascendente, di affrontare il presente e il concreto della sofferenza ma anche la possibilità di una diversità attiva e generosa, non superba. Di parlare del massimo a un pubblico vastissimo, di guardare infine in alto e non soltanto in basso o «ad altezza d’uomo». Di affrontare il mistero. Parlo di autori variamente e autonomamente saggi, credenti o non credenti, di formazione cattolica o protestante, ma ciò nonostante legati al modello evangelico.Il più limpido è Carl Theodor Dreyer, che già in uno dei primi film, Pagine del libro di Satana (1921), in quattro episodi in cui Satana assumeva le fattezze dei tentatori di Giuda e poi di inquisitori, giacobini e bolscevichi, affrontò la contrapposizione tra amore e intolleranza, tra fede e ipocrisia, tra mitezza e violenza. L’autore del Processo di Giovanna d’Arco e di Dies Irae, ha dato con Ordet (La parola, 1955) un film formalmente conchiuso, teatrale e sbalorditivamente aperto, oltre ogni paesaggio terrestre: non il solito romanzo o film sul miracolo che forse c’è e forse non c’è (un «sotto-genere» letterario e cinematografico anche questo), ma il miracolo – e addirittura la resurrezione di una morta – che può operare chi ha fede. Ma chi ha fede, il solo, è il pazzo della famiglia, è il puro folle. L’unico che davvero ama e davvero crede è l’unico che ha la facoltà di operare il miracolo, l’unico che sa sfidare la pesantezza della condizione umana in nome di un oltre e di un più, di un Vero non costretto nei vincoli della ragione.Luis Buñuel, di cui è rimasta famosa la boutade «sempre ateo grazie a Dio», più seria di quel che non sembri, ha mostrato piuttosto che i beni portati dall’imitazione di Gesù, i mali che essa può provocare, in particolare in Nazarin (1958) e in Viridiana (1961), ma anche altrove. È l’accettazione dei limiti che egli propone, ma cogliendone in Nazarin l’elemento fondamentalmente cristiano che li oltrepassa: la carità, la semplice, immediata carità degli umili e non quella filosofata e conclamata dei colti... l’accettazione dei limiti, infine, ma in una pratica di silenziosa e immediata carità, o agape, o amore. Quel che conta soprattutto è, alla fine, ha scritto don Milani con i suoi scolari, l’amore del prossimo. In La via lattea, infine (1969), egli ha ragionato sulla storia del cristianesimo e sulle sue storture (l’irrigidimento in chiese, l’intolleranza che contraddice l’essenza stessa della predicazione di Gesù), sull’originaria condanna e soggezione ai limiti della condizione umana, sulla difficoltà di vedere e di capire, se non «come in uno specchio, oscuramente», il mistero in tutta la sua insostenibilità, e tuttavia il continuare ad andare, a cercare, ad azzardare, a sfidare...
Il russo Andrej Tarkovskij ci disse con Andrej Rublëv (1966) quale dovrebbe essere la funzione dell’arte, in ogni epoca storica – dire l’indicibile, cercare un senso al dolore dell’uomo, alla sua stessa esistenza. Ed è in questo film-rivelazione che la presenza del Cristo, la riflessione su Gesù e sul Cristo, sull’uomo e su Dio, è più evidente e più forte grazie alla pittura di Rublëv e al racconto della sua vita e della sua ricerca. Con Solaris (1972), Lo specchio (1974) e Stalker (1979) egli ha affrontato con il giusto tremore l’esplorazione del mistero – della vita, dell’umano e del divino, memore di Tolstoj e di Dostoevskij e alla loro altezza. Sacrificio (1985) è il suo cosciente film testamento, ed è forse il più cristiano dei suoi film, il più disperato e insieme il più ansioso di speranza, e grande è il rimpianto che, per le solite contingenze storiche, e cioè politiche ed economiche, non gli sia riuscito di dar corpo a due immensi progetti, L’idiota (era riuscito a farlo, ed è un capolavoro, il più «cristiano» dei registi di religione non cristiana, Akira Kurosawa) e... il Vangelo di Luca.Robert Bresson, infine, che della possibilità della Grazia («il vento soffia dove vuole» ha scritto nei titoli del Condannato a morte è fuggito) e della lucidità della Disperazione (il mondo è del male, e Il diavolo, probabilmente è il titolo della più cupa delle sue constatazioni sulla vittoria del male nel mondo) ha fatto la sua bandiera in film così duri nel mostrare la vittoria del male da renderne la visione quasi insostenibile. Egli ha osato, nel più bello di tutti, parlare del calvario mostrando il calvario di un asino, un animale. In Au hasard, Balthazar troviamo la più coraggiosa e dolorosa delle constatazioni, ma anche, forse, la più religiosa delle possibili parafrasi dell’esempio Gesù, il più radicale Gesù dello schermo. Nel cinema sono stati Buñuel e Bresson, estranei al misticismo tarkovskiano e alle certezze dreyeriane, i portatori più strenui di una sorta di teologia negativa, che più che di Gesù o di Dio ha parlato dell’uomo, di noi. Nel primo a sfida cristiana si placa nell’accettazione di un primato dell’umano che interroga e si interroga, un perenne ritorno su terra che ragiona sull’umana limitatezza: il desiderio, le passioni con cui è necessario fare i conti. Il mistero ci ricopre in un cammino terrestre che il divino, silente, non illumina, mentre le nostre mediocri e ossessive pulsioni premono e distruggono, in una opacità senza fine. Non c’è soluzione, non c’è illuminazione. Se il messaggio evangelico resta vivo, talvolta, di rado, è solo negli ultimi e negli umili.
In Bresson la conclusione è amarissima: nel suo ultimo film L’argent, il regista ha espunto dal racconto tolstojano che il film segue passo passo tutta la seconda parte, l’esatta metà del racconto, sicché vediamo tutte le nefaste conseguenze che l’attrazione del denaro ha sugli individui, di persona in persona, di ambiente in ambiente, di caso in caso, ma non vediamo come, dal sacrificio (la vecchia che si lascia uccidere, che perdona il ladro che la uccide) nasce un catena contraria, nascano i risarcimenti del bene. La catena del male può essere interrotta da una singola azione giusta, dice Tolstoj, ma Bresson lo nega drasticamente, lo rifiuta. Non c’è speranza né riscatto per l’uomo, non c’è salvezza. Il regista del Diario di un parroco di campagna, il cui protagonista bernanosiano concludeva in punto di morte, nonostante la constatazione della prevalenza del male, che «tutto è grazia», non vede più grazia in nessuna storia, in nessuna società, in nessun uomo.Gesù ha fallito. Il diavolo, probabilmente... È allora nel protestante Dreyer che cercheremo l’appiglio giusto per andare avanti, e nel più laico dei suoi film, quello in cui Gertrud, la protagonista che gli dà il titolo, dopo aver esperito tutte le possibili delusioni dagli uomini e dalla vita, dice a un amico di aver scritto una poesia e gliela recita (la cito a memoria): «Sei forse giovane? No, ma ho amato. Sei forse bella? No, ma ho amato. Sei forse felice? No, ma ho amato», e chiede che sulla sua tomba, quando la morte verrà, egli faccia incidere le parole «Amor Omnia». Non è secondario che Dreyer abbia a lungo preparato un film su Gesù, che non ha potuto realizzare (la sceneggiatura venne pubblicata in Italia da Einaudi): Gesù uomo e artefice di miracoli, Gesù figlio dell’uomo e figlio di Dio. Il cinema non è riuscito a darci il Gesù di cui, forse, avevamo più bisogno.
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