venerdì 13 ottobre 2017
Il bomber laziale: «Ho voluto raccontare la mia storia per cancellare tutte le menzogne... Ho corso sulle “montagne russe” ma oggi sono un uomo felice»
Giordano, il Cruijff di Trastevere
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Chi scrive, a 13 anni, stagione calcistica 1982-’83, costrinse suo padre a girare tutta Roma alla ricerca della maglia della Lazio. Ma non una maglia qualsiasi, bensì la mitica n° 9 di Bruno Giordano. Per i laziali, di quella generazione, a Campo dè Fiori, dove campeggia la statua del filosofo “eretico” Giordano Bruno, (arso al rogo il 17 febbraio 1600) doveva essercene un’altra. Un omaggio al “bomber” Bruno Giordano, nato a Trastevere, il 13 agosto del 1956. Quel giorno venne al mondo il «miglior pensatore con i piedi» della Roma biancoceleste, ora raccontato magistralmente nella biografia, Bruno Giordano. Una vita sulle montagne russe. da Giancarlo Governi. «Un libro che, dopo aver detto no a tanti potenziali biografi ho fortemente voluto – spiega Giordano – È stato scritto per cancellare l’immagine distorta che mi voleva come il prototipo del peggior “trasteverino”, e anche per ringraziare i miei genitori per tutto quello che mi hanno dato».

Bruno, il figlio del tappezziere di Campo dé Fiori, è stato un talento “benedetto” dal suo talent scout: don Francesco Pizzi, il “ct” dell’oratorio Don Orione.
«Don Pizzi, che ha appena festeggiato i 95 anni, è una figura centrale nella mia vita e non solo... È stata la salvezza di tanti ragazzi del quartiere che ha strappato alla droga e alla delinquenza. E tutto grazie al calcio e ai suoi insegnamenti morali e spirituali. Si divertiva a fare le partitelle con noi, giocava con la tunica alzata ma quando provavamo a fargli il tunnel, lui furbo, l’abbassava di scatto e noi in coro contestavamo: “A Don Pì, nun se fa così, nun è regolare”... - sorride al ricordo - . Quando vado a trovarlo mi ricorda spesso: “Tu Bruno sei stata la mia più grande vittoria, peccato che da romanista mi hai costretto a tifare la Lazio...».

Alla Lazio a 13 anni, per 100 mila lire e uno stock di maglie e palloni donati ai ragazzi dell’Orion Trastevere.
«Superai il provino, nonostante rimasi senza tacchetti agli scarpini (numero 40 quando portavo il 38) rimediati all’ultimo minuto da don Pizzi. Quando l’oriundo “Flacco” Flamini mi comunicò che mi prendevano, la prima cosa che feci fu girare per Trastevere con la tuta della S.S. Lazio addosso: avevo il petto gonfio d’orgoglio. Quella stessa settimana alla bottega di mio padre si presentarono dei dirigenti della Roma a fare la con-trofferta: “Lo prendiamo noi e gli diamo anche un Vespino per venire agli allenamenti”... Ma io avevo dato la mia parola alla Lazio, quella era e sarebbe rimasta la mia seconda casa».

La società di “Papà” Lenzini, il presidente, del “Maestro”Tommaso Maestrelli, l’allenatore del primo storico scudetto del 1974 e di “Long John” Chinaglia il condottiero, il cui nome era «il grido di battaglia » dell’Olimpico laziale.
«A diciotto anni entrai in quella squadra di “matti” che oltre a sparare con le pistole ne combinavano di tutti i colori... Alle partitelle del venerdì a Tor di Quinto erano guerre, tutti nemici, ma alla domenica diventavano una cosa sola. E questo grazie alla presenza carismatica di Maestrelli, una figura rara, irripetibile nel mondo del calcio».

Quando ha esordito in Serie A (il 5 ottobre 1975, a Marassi contro la Samp) e fece subito gol, Maestrelli però non c’era...
«Un tumore lo aveva costretto a lasciare momentaneamente la Lazio e quel giorno fu Corsini a spedirmi in campo. Poi quando Maestrelli tornò, grazie alla sua fiducia e ai miei gol, ci salvammo dalla retrocessione in B... all’ultima giornata, a Como. Ce l’avevamo fatta, nonostante Chinaglia fosse volato via a New York per giocare nei Cosmos. Purtroppo Maestrelli invece la sua battaglia contro il male la perse. L’unica cosa che mi consola è avergli regalato l’ultima grande gioia....».

E quale sarebbe stata?
«Il gol della vittoria nel derby (28 novembre 1976) con la Roma: Felice Pulici parò anche l’aria e io segnai quella rete da posizione quasi impossibile... Maestrelli aveva saputo che noi, i suoi ragazzi, avevamo vinto quella partita. Il mio gol era per Tommaso. E Pulici in lacrime alla tv disse: “Se oggi ho parato l’impossibile è perché ho volato con le sue ali”. Quella domenica sera Maestrelli cadde in coma, morì quattro giorni dopo».

Una ferita mai rimarginata, la perdita precoce del “Maestro”. Ma non fu la sola nel suo cammino “sulle montagne russe”.
«È vero. Un anno dopo (1977) arrivò la fine assurda di Re Cecconi: ucciso da un colpo di pistola sparato da quel gioielliere che non poteva non aver riconosciuto quel “biondo” fantastico di Luciano: abitava lì, nel suo quartiere. Poi ci fu la tragedia all’Olimpico del tifoso laziale Vincenzo Paparelli, ucciso da un razzo sparato da curva a curva. D’un tratto tutto si fece cupo, violento. Io ero cresciuto in una Roma in cui al derby, laziali e romanisti stavano seduti uno accanto all’altro senza problemi, al massimo scommettevano sul risultato della partita».

Giordano neppure quello aveva mai fatto, ma finì dentro nel primo scandalo del Calcioscommesse.
«Io e il mio “gemello” Lionello Manfredonia rinchiusi a Regina Coeli senza un perché. Era il 28 marzo 1980, una data che non dimenticherò mai: arrestato a Pescara alla fine della partita. Eravamo arrivati all’apice, convocati in Nazionale da Bearzot, un futuro davanti tutto da scrivere e di colpo invece eravamo diventati gli “appestati”, fermati con l’accusa infame di aver aggiustato le partite... Io poi che in quelle due gare incriminate (Milan e Avellino) avevo pure segnato... Assurdo. Con Lio l’abbiamo pagata troppo cara per una giustizia sportiva che, ieri come oggi, non esiste. Due anni di stop in cui andavamo a giocare nelle periferie e nei tornei aziendali, per non mettere su pancetta, e per non impazzire...».

Il Mundial vinto dell’82 fece scattare l’amnistia e un ritorno in campo con tanto di “promessa divina”.
«Vedere in tv l’Italia vincere il Mondiale fu una gran gioia ma anche il rimpianto più grande della mia storia di calciatore. Con la Lazio ripartimmo dalla serie B ma nel ritiro estivo di Sarentino (Bolzano) la prima cosa che facemmo con Lionello fu andare a cercare una chiesa e davanti alla statua della Madonna la nostra promessa è stata: “Dobbiamo riportare subito la Lazio in Serie A”...».

Detto, fatto.

«Soddisfazione doppia. In quella Lazio della promozione in A eravamo nove romani e ci tengo a sottolinearlo 9 laziali, più o meno tutti nati e cresciuti nelle giovanili. Il 12 giugno 1983, il giorno della promozione a Cava dei Tirreni, è un’altra data che ho scolpito nella memoria».

Se alla sua memoria chiediamo di ricordare
del giugno 1985...
«L’estate che ho firmato per il Napoli. Era la fine di tanti incubi, compreso un grave infortunio al ginocchio che mi aveva imposto un lungo stop... Chinaglia che alla Lazio era tornato da presidente ma con modalità alla Trump più che da dirigente di calcio mi voleva vendere alla Roma... Io gli risposi: ma tu sei matto, piuttosto smetto... Per fortuna Italo Allodi, su richiesta di Maradona (il più grande calciatore di sempre, sottolineo), mi venne a prendere. Non ho alzato la Coppa a quel Mundial dell’82 ma vado fiero del primo storico scudetto vinto dal Napoli (1986-’87) ... quello vale quanto venti conquistati altrove. E soprattutto d’aver fatto parte con Maradona e Careca di un tridente mondiale, la “Ma-Gi-Ca”».

Può mettere nella sua bacheca personale anche l’encomio del grande Johan Cruijff.
«Il mio idolo. Per anni ho tenuto i capelli a caschetto perché io “volevo essere Cruijff”. Lo incontrai a 18 anni in una amichevole contro l’Ajax. A fine partita ero così intimorito che non ebbi il coraggio di chiedergli la maglia, ma lui mi fece un cenno e venne a scambiarla con la mia... Molti anni dopo, intervistato da Stefano Greco disse: “Giordano è l’unico, tra i tanti eredi che mi hanno affibbiato, in cui mi sono veramente riconosciuto”. Sono cose che fanno bene al cuore».

Quali sono le cose che oggi fanno stare bene “mister” Giordano?
«Poter continuare ad allenare. E farlo possibilmente in società che non mi chiamino per il mio passato e per l’immagine dell’ex grande giocatore che deve salvarle dal fallimento... È successo in A ma anche nelle serie minori. Del resto ho allenato in tutte le categorie. Ma oggi ciò che mi fa stare davvero in pace con me stesso è essere riuscito a costruire una bella famiglia. Ho avuto la fortuna di incontrare una donna eccezionale, mia moglie Susanna, con la quale, oltre ai nostri splendidi due figli Marco (fa il procuratore) e Rocco (gioca nel Monterotondo, in Eccellenza) mi ha aiutato a crescere anche Valentina (la figlia nata dal primo matrimonio) e mio nipote Daniele, il figlio di mia sorella Silvia che ha avuto una vita sfortunata, è morta nel 2014... Ma sì va avanti. Vivere è come il calcio, una sfida continua».

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