Ghitta Carell, l'ungherese che fotografò Mussolini
A Villa Necchi Campiglio una mostra su questa originale artista in un centinaio di scatti, lettere e documenti. Davanti al suo obiettivo passarono tutti i potenti dell'epoca
Chi era Ghitta Carell? Un alone di mistero circonda questa originale figura di fotografa dell’alta società italiana negli anni ’30 del secolo scorso. Una mostra a Villa Necchi Campiglio a Milano - Ghitta Carell. Ritratti del Novecento, aperta fino al 12 ottobre - offre l’occasione di riscoprirla attraverso un centinaio di foto, lettere e documenti. Ma soprattutto, spiega il curatore Roberto Dulio, si è cercato di sfatare il mito negativo di “fotografa del regime fascista”: « È stata una grande ritrattista, punto». Ancora oggi, però, appare una figura sfuggente. E la mancanza di documenti complica le ricerche. Anche perché, come una diva dell’epoca, Carell giocò spesso con la sua identità.
Margit Klein (questo il suo vero nome) nasce nel 1899 a Szatmár, in Ungheria, dove il padre Ignác è proprietario di una fabbrica di scarpe. Sin da giovanissima si appassiona all’arte, al disegno e soprattutto alla fotografia, in un Paese dove all’inizio del secolo sono all’opera numerosi fotografi di successo, tra cui diverse donne (Olga Máté, Ergy Landau, Nora Dumas, Irén Werner). Tra gli uomini, un ruolo importante spetta a József Pécsi, autore del libro L’arte della fotocamera (1917) dove analizza la storia del ritratto, facendo un paragone tra il pittore che ha tempo e modo per osservare bene il suo modello e coglierne tutti i tratti del carattere, e il fotografo che deve invece lavorare molto più rapidamente. Non è certo se Ghitta abbia letto il volume (ma questo passaggio rivela molto del suo lavoro), anche se è molto probabile che si sia formata nel suo studio, prima di trasferirsi in Italia. Giunta a Firenze, è grazie a Pécsi che entra a far parte della colonia di artisti ungheresi raccolti intorno allo scultore Márk Vedres, il quale la mette in contatto con l’aristocrazia locale, che inizia a ritrarre. Si fa chiamare Carell: forse da Carei, un toponimo della sua regione natale, come a voler alludere a nobili origini. «Si inventa anche di avere lavorato come apprendista alla corte degli Asburgo a Vienna», racconta Dulio.
Il successo è immediato: nel 1927 Ghitta si sposta a Roma dove, coltivando amicizie altolocate, diventa la fotografa più richiesta, scalzando la collega inglese Eva Barrett, il cui stile più classico appare di colpo antiquato. Il segreto del successo sta nel fatto che rilavora le lastre usando pennelli, raschietti, matite, «quasi un’antenata del photoshop», scherza il curatore. I modelli si vedono ringiovaniti, le sue quasi non sembrano foto ma dipinti. Basta osservare alcuni scatti esposti in mostra per capire la novità: da Maria Josè di Savoia, immersa in una luce soffusa e “regale”, a Palma Bucarelli che sembra un’attrice del cinema dei “telefoni bianchi”. O Roberto Longhi a braccia conserte con la sigaretta in bocca, in posa da dandy. E il critico apprezza il risultato, tanto da scriverle una dedica affettuosa: «A Ghitta Carell, che rammenta all’obbiettivo d’esser critico e al critico d’esser obbiettivo».
Anche i potenti hanno un’aria spesso familiare, imborghesita, come Benito Mussolini e sua figlia Edda. Carell arriva al duce tramite Margherita Sarfatti di cui è diventa presto amica, dedicandole vari ritratti. Le loro biografie sono simili: amicizie importanti, una rapida ascesa e una carriera fulminea. Ma la comune origine ebraica è la causa del loro declino, col precipitare degli eventi alla fine degli anni ’30. Dopo l’8 settembre, Ghitta riesce a nascondersi a Milano, scampando ai nazisti. Nel dopoguerra riprende a lavorare (una delle sue ultime foto ritrae papa Giovanni XXIII), ma ormai il successo è tramontato. In tarda età si trasferisce dai parenti ad Haifa, in Israele, dove muore nel 1972.
Da allora, qualche citazione nei cataloghi di mostre e alcune critiche: Italo Zannier, in Storia della fotografia italiana, definisce i suoi scatti “modesti e kitsch”, al pari di quelli della vecchia rivale Barrett. Susan Sontag, in Sulla fotografia, cita invece “l’innocente complicità” di Carell con il regime. «Forse era così innocente e rassicurante da essere volutamente artefatta – conclude Dulio –. Ma aveva ben presente chi aveva di fronte. Ha sempre reinventato i suoi modelli, noti e meno noti, come alla fine ha fatto con sé stessa». E non è un caso che il volume pubblicato da 5 Continents Editions per la mostra riporti nel titolo una citazione dai Sei personaggi in cerca d’autore di Luigi Pirandello (anche lui finito davanti all’obiettivo dell’artista): «Ciascuno di noi si crede “uno”, ma non è vero».
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