domenica 12 novembre 2017
Su Rai 3 la domenica sera con il programma “Ricchi e poveri”: sei reportage fra Italia, Kenya e Messico. «Sempre più disparità: social e tv non ne parlano»
Gad Lerner nella discarica di Dandora a Nairobi, in Kenya per “Ricchi e poveri” su Rai 3

Gad Lerner nella discarica di Dandora a Nairobi, in Kenya per “Ricchi e poveri” su Rai 3

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«La povertà viene taciuta come fosse una vergogna, anche dalla televisione e dai social media. Io mi ritengo una persona fortunata a poterne parlare». Così Gad Lerner racconta Ricchi e poveri , in onda su Rai 3 per sei domeniche. Un’inchiesta in sei puntate firmata dal giornalista autore di Islam, Italia e Operai e da Laura Gnocchi, quantomai attuale. Il giornalista apre la nuova serie con un’intervista in ospedale a Concetta Candido, la disoccupata che si è data fuoco per protesta nella sede Inps di Torino e di cui Lerner racconta la storia nel libro Concetta. Una storia operaia edito da Feltrinelli. Per raccontare l’inasprirsi delle diseguaglianze che dividono ricchi e poveri, in questa prima puntata Lerner viaggerà da Settimo Torinese all’Inghilterra, fino al Kenya.

Lerner, Ricchi e poveri è anche un gruppo che decise di chiamarsi così negli anni 60, quelli della contestazione e delle rivendicazioni sociali...

«Di questo argomento se ne poteva parlare con ironia nell’Italia degli anni 60, dove erano molto accorciate le distanze tra ricchi e poveri: gli stili di vita si erano avvicinati, i poveri avevano avuto forme di protezione sociali molto significative, c’era un naturale frequentarsi fra classi sociali diverse. Oggi le distanze sono estremamente cresciute. Basti pensare che i tre uomini più ricchi degli Stati Uniti posseggono da soli la metà della ricchezza di tutti gli americani che sono 160 milioni».

Un argomento però poco frequentato dalla televisione.

«La nostra tv prova un grande gusto a proporre trasmissioni dove i ricchi ostentano i loro straordinari privilegi, quasi per anestetizzare un senso di scandalo, per considerare queste disuguaglianze accettabili perché inevitabili. La povertà viene dipinta come una vergogna, da custodire nel privato: se sei povero è colpa tua perché sei debole, perché non sei capace...».

La prima puntata apre con un caso italiano drammatico.

«Intervisterò Concetta, che ho conosciuto bene. Volevano liquidare il caso come un raptus di follia, mentre invece lei è una lavoratrice abbandonata in una solitudine che ha provocato disperazione. Questa donna era attivissima su Facebook, dove scriveva di tutto, di animali, ricette, della sua fede molto forte in Padre Pio, ma non ha mai scritto una virgola sul fatto di essere stata licenziata, di essere piena di debiti, perché si vergognava. Sui social, che dovrebbero essere uno strumento di relazione, sul tema della povertà scattano reticenza e vergogna».

Le sue inchieste mostrano una povertà globale e interconnessa.

«Quando diciamo aiutiamoli a casa loro... Io sono andato nelle loro case, nella disperazione di Ciudad Juarez, in Messico al confine col Texas, fino alla baraccopoli di Dandora a Nairobi dove mi ha accompagnato padre Maurizio Binaghi. Ma anche a Malindi, un tempo paradiso africano di tanti imprenditori. Torno poi a Padova dove don Luca Favarin ci spiega il sistema dell’accattonaggio organizzato dei giovani africani. E poi a Londra di fronte allo scheletro della Grenfell Tower, la casa popolare circondata dalle esclusive residenze di North Kensington, nel cui rogo lo scorso giugno sono morte 80 persone. Lì incontreremo lo scrittore anglo- nigeriano Ben Okri».

Parlerà anche dei forti appelli di papa Francesco a favore di una maggiore giustizia sociale?

«Nell’ultima delle sei puntate sotto Natale voglio affrontare il tema della dottrina sociale di papa Francesco che, nella sua radicalità, affronta con sistematicità temi come il lavoro, il precariato, la redistribuzione della ricchezza. Eppure, e mi dispiace dirlo, non viene calcolato».

Ci permetta di contraddirla. Le parole di Francesco sono di ispirazione per milioni di persone.

«Io mi riferisco a chi detiene le responsabilità e alla maggior parte della stampa che lo tratta come se fosse un vecchio sognatore al quale si può lasciar esprimere queste belle utopie senza invece approfondire le sue posizioni in un dibattito serio».

E per quel che riguarda l’Italia?

«In tutte le puntate c’è l’Italia, posti come Crotone o la Basilicata. Al sud quello che fa più impressione è la povertà dei bambini. Ma ovunque abbiamo categorie estesissime di lavoratori, facchini, donne delle pulizie che sono lavoratori poveri. Il 40% dei poveri in Italia è gente che lavora. Questo accrescersi smisurato nella distanza fra i redditi, come quello fra un top manager e un operaio, lo si vuol far passare come un dogma di una nuova religione».

Ma esistono delle soluzioni?

«Certo, quella di stabilire delle regole di dignità del lavoro. Anche perché ho riscontrato un’altra cosa molto grave, il pericolo della povertà culturale, perché nel non lavoro non c’è il tempo libero, ma c’è il tempo vuoto. È un problema educativo e culturale che potrebbe essere risolto con una maggiore solidarietà e mutuo soccorso fra le persone».

Ma anche con scelte politiche appropriate?

«In Italia c’è una totale inadeguatezza per gli stanziamenti al sostegno ala povertà. Il reddito da inclusione ha fondi del tutto insufficienti. Nel mercato del lavoro, poi, la deregulation selvaggia ha aiutato la ripresa economica, alla quale però, a differenza del passato, non si accompagna alla crescita del reddito da lavoro, che invece cala. Sono normative su cui lo Stato potrebbe intervenire».

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