martedì 14 giugno 2016
L’intervista al disegnatore spagnolo Paco Roca, che nelle sue storie riesce ad affrontare con delicatezza anche la vecchiaia e la morte e che ama definirsi Dibujante ambulante, un disegnatore ambulante che attraversa i differenti generi senza mai perdere il suo tocco delicatamente realistico e spontaneamente poetico.
Paco Roca e il sentimento del fumetto
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Paco Roca, quello di Rughe. Per gli intenditori del fumetto d’autore è un maestro riconosciuto, ma il suo nome è familiare anche presso un pubblico altrimenti insospettabile.  Medici che si occupano di Alzheimer, per esempio, o parenti di malati, che nella più celebre tra le graphic novel dell’artista spagnolo hanno ritrovato le proprie speranze e sofferenze. Nato a Valencia nel 1969, Paco Roca non è in effetti soltanto “quello di Rughe”. Preferisce definirsi dibujante ambulante, un disegnatore ambulante che attraversa i differenti generi senza mai perdere il suo tocco delicatamente realistico e spontaneamente poetico. Le sue storie – tutte pubblicate in Italia da Tunué – possono basarsi su una personale rivisitazione della guerra di Spagna o del regime franchista, come accade nel Faro (2005), oppure abbandonarsi alla più visionaria fantasia borgesiana, secondo il modello portato a perfezione nelle Strade di sabbia (2009). Lo stile, in ogni caso, si riconosce ad apertura di pagina, inconfondibile in ciascuna delle tavole, spesso silenziose, nelle quali il racconto è scandito. Uno dei titoli più recenti, La casa, è da poco arrivato nel nostro Paese nella bella traduzione di Bruno Arpaia (Tunué, pagine 128, euro 16,90) ed è forse quello che, sotto vari aspetti, più ricorda il clima e la drammatica leggerezza di Rughe. Se nel fumetto del 2007 – premiatissimo in patria e all’estero, e di cui lo stesso Roca ha realizzato una versione a cartoni animati – la condizione della vecchiaia era descritta dal microcosmo della casa di cura in cui viene ricoverato l’ex direttore di banca Emilio, nella Casa il punto di vista è quello di Vicente, José e Carla, i figli, diversissimi tra loro, dell’operaio Antonio. Il padre è morto da poco e gli eredi devono decidere che cosa fare della casa di campagna che per la famiglia ha rappresentato un piccolo miraggio di benessere e ora è diventata un luogo di ricordi e di rimpianti. 

«Anche questo libro, come il precedente, nasce da un omaggio a mio padre – spiega Paco Roca ad Avvenire –. In Rughe parlavo della vecchiaia, nella Casa della morte. In entrambe le storie è molto importante il tema della memoria, intesa come un mezzo per comprendere ciò che siamo. In Rughe, infatti, la perdita della memoria coincideva con lo smarrimento dell’identità personale. Nella Casa la ricerca e la riscoperta della memoria permette ai personaggi di comprendere meglio se stessi. Non c’è nulla di nostalgico, in questo: la memoria, collettiva o individuale che sia, è il modo per capire il presente. Non possiamo sapere chi siamo se prima non abbiamo chiaro da dove veniamo».  Per un autore di fumetti spagnolo questa affermazione ha un valore particolare, come lo stesso Roca ha dimostrato in uno dei suoi lavori più ambiziosi e caratteristici, L’inverno del disegnatore (2010). Ambientata nella Barcellona degli anni Cinquanta, la storia ricostruisce con precisione le vicende degli artisti che ruotavano attorno alla principale casa editrice del settore, Bruguera. Una rievocazione minuziosa e, ancora una volta, niente affatto nostalgica, che rende onore a un manipolo di disegnatori geniali e sot- topagati, la cui attività deve fare continuamente i conti con le strettoie della censura franchista, oltre che con la routine quotidiana della vita di redazione. «Si dice che le difficoltà contribuiscono al fiorire della creatività – sottolinea Paco Roca – Di sicuro, quando la libertà scarseggia, gli artisti sono costretti a diventare particolarmente ingegnosi per esercitare il loro senso critico. Hanno a disposizione un bersaglio si cui scagliare le loro freccette. La situazione dei disegnatori spagnoli di allora era però diversa. Producendo fumetti destinati ai bambini e ai ragazzi, andavano incontro a una censura sempre più severa, che costò il carcere ad alcuni di loro. Il franchismo non voleva più saperne di un fumetto che presentava a giovani e giovanissimi i problemi della società dell’epoca e questo portò all’affermarsi di un nuovo genere, improntato alla fantasia e lontano dalla realtà».  La situazione oggi è completamente cambiata. Al fumetto è ormai riconosciuta un’autonoma dignità espressiva, che permette di affrontare argomenti anche molto impegnativi, quali appunto la vecchiaia, la malattia e la morte. «Solo una decina di anni fa – ammette Roca – era decisamente difficile proporre storie di questo tipo all’industria del fumetto. Da un lato non erano considerate opportune, dall’altro non si adattavano ai formati narrativi esistenti. Adesso invece noi autori godiamo di una libertà assoluta, grazie alla quale possiamo occuparci di ciò che ci interessa, esattamente come accade in altri ambiti artistici, compresa la letteratura. È questo che consente il racconto di tematiche tanto complesse». Appartiene a questo sviluppo anche il ricorso a punti di vista differenti all’interno della stessa storia.

 

Nella Casa, per esempio, l’unico ad aver davvero ereditato il pragmatismo del padre Antonio è il primogenito Vicente, che mal sopporta il carattere svagato dell’intellettuale José. Almeno all’inizio, le loro idee sulla casa da sistemare sembrano inconciliabili. Finché a qualcuno non viene in mente di costruire, finalmente, la veranda che il padre aveva sempre desiderato. «È del tutto logico che i vari personaggi si convivano in un contesto da cui vengono trasformati. Il mio tentativo è di rendere evidenti le diverse sfumature con cui è possibile guardare allo stesso fatto». Attratto dalla realtà e nello stesso tempo sempre disposto a metterla in discussione, Paco Roca si è ispirato a Salvador Dalí per Il gioco lugubre (2001) e, di libro in libro, sta costruendo la piccola epopea la piccola epopea dell’Uomo in pigiama. «Le idee vengono come vengono – spiega –, poi bisogna dar loro una forma, bisogna scegliere come raccontare. Per me è un modo di riflettere su alcuni temi, anche cercando di alternare progetti molto diversi tra loro. In un certo senso è come se ogni nuova opera si ponesse in contrapposizione con quella che l’ha appena preceduta». In tutto questo l’attenzione ai sentimenti rimane preponderante: amore, lutto, legami familiari. «Non c’è nulla di più importante – conclude il disegnatore –. I sentimenti accomunano gli esseri umani, sono quello che ci appassiona e ci fa interessare a una storia, indipendentemente dal fatto che sia ambientata nell’antica Roma o su una stazione spaziale». 

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