mercoledì 31 agosto 2022
Laszlo Földényi traccia una linea dalle rinascimentali città ideali agli spazi utopici dei Lumi fino agli incubi di purezza dei totalitarismi. L’astrazione della forma è dispositivo di controllo
Étienne Louis Boullée, “Projet de cénotaphe à Newton”, vista in sezione, 1784

Étienne Louis Boullée, “Projet de cénotaphe à Newton”, vista in sezione, 1784 - WikiCommons

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A volerglielo trovare, un difetto ce l’avrebbe anche la perfezione, almeno quando si manifesta nell’esperienza dello spazio. Non si può giungere a questa peculiare forma di compiutezza, infatti, se non ostinandosi a ignorare l’imperfezione di cui noi esseri umani siamo portatori. La nostra irrequietezza, la nostra propensione al movimento e all’indecisione: in una parola, la nostra libertà. Non per niente, osserva il critico ungherese László F. Földényi in un passaggio cruciale del suo saggio I luoghi della morte vivente (traduzione di Andrea Rényi, La Vita Felice, pagine 116, euro 14), di norma le rappresentazioni rinascimentali della Città Ideale riproducono piazze e colonnati deserti, abitati solamente dalle leggi inappellabili della prospettiva e della simmetria. Scorci urbani nei quali pare che l’umanità non ci sia più, o addirittura non ci sia mai stata, non fosse che di tanto in tanto un indizio lascia scorgere una diversa possibilità. Sotto forma di errore, magari. O magari di insurrezione della speranza.

Docente di Estetica e Letteratura comparata a Budapest, noto in Italia per il folgorante Dostoevskij legge Hegel in Siberia e scoppia a piangere (il melangolo, 2009) oltre che per una manciata di interventi apparsi in rivista, Földényi porta come esempio di questa desertificazione degli spazi utopici la Veduta architettonica del senese Francesco di Giorgio Martini, conservata presso la Gemäldegalerie di Berlino. Se si fa eccezione per le navi che appaiono in lontananza, nel quadro l’unica traccia di presenza umana è costituita da una persiana il cui battente è rimasto stranamente sollevato. Tutto sta a stabilire chi abbia aperto lo spiraglio, e per quale motivo.

Per rispondere alla domanda Földényi intraprende un viaggio del quale il sottotitolo del libro, “Kafka, De Chirico e gli altri”, offre una sintesi forse eccessivamente ellittica, ma comunque efficace. Seguendo l’andamento di un’argomentazione intesa come «arte della tessitura del tappeto spirituale» (la definizione viene dalla prefazione di Viktória Radics), Földényi indaga anzitutto l’analogia sotterranea tra ideale e ideologia.

Il rischio della rovina e del disfacimento, sempre insito in ogni pretesa di perfezione, cresce in maniera esponenziale con l’affermarsi dei totalitarismi novecenteschi, le cui premesse risalgono alla cultura illuminista. La progressiva trasformazione degli idéologues in funzionari di rivoluzioni più o meno permanenti, e più o meno tradite, va di pari passo con la progettazione e la costruzione di edifici che, nella loro rigorosa strutturazione geometrica, implicano e portano a sistema le pratiche del controllo politico-sociale. «Ogni avvenimento è unico – commenta Földényi –, ogni principio è unico, e ogni fine è esclusiva, eppure al contempo tutto si ripete costantemente e continuamente». Di questo circolo vizioso sono testimonianza le varie versioni del cosiddetto Panopticon, immaginato già da Leon Battista Alberti come fortezza dominata da un inafferrabile despota che «troneggia nello sprofondo come un ragno al centro della propria ragnatela».

La posizione, prospetticamente favorevolissima, è la medesima suggerita da Jeremy Bentham nel 1791, nella trattazione sul Panopticon propriamente inteso. Non un carcere, ma l’idea di un carcere quintessenziale, organizzato su pianta circolare in modo che l’“ispettore” possa sempre osservare ciascun prigioniero. L’obiettivo di “vedere senza essere visti” è garantito dalla centralità della stanza in cui si trova il guardiano, ma anche dagli speciali materiali con cui il Panopticon è costruito. La «grata di ferro abbastanza sottile da non ostacolare la vista» ipotizzata da Bentham è il modello delle attuali soluzioni “leggere”, che promettono di pervenire alla perfezione per via di trasparenza.

Intollerante dell’opacità, l’utopia predilige istintivamente le forme in sé concluse. Sfere, cubi, parallelepipedi e piramidi sono i pezzi di un gioco di costruzioni messi nelle mani di un bambino gigantesco, che li accosta non assecondando il capriccio, ma obbedendo a una regola che si illude di imporsi da solo. La sua attività ha conseguenze serissime, che stanno sotto il segno del presagio. La fantasia concentrazionaria di Bentham trova realizzazione ancora prima di essere formulata, se è vero che già nel 1784 a Vienna si costruisce una Narrentum, o Torre dei Folli, che eleva a teorema l’istituzione manicomiale. La sagoma è straordinariamente simile a quella della Torre rossa che nel 1913 dà il titolo a un dipinto di Giorgio de Chirico. Il colpo d’occhio, ribadisce Földényi, riconduce alle vedute della Città Ideale, riproducendone il paradosso di un paesaggio «creato interamente da esseri umani», i cui spazi ci appaiono tuttavia «come se nessun uomo vivente li avesse mai visti».

Siamo al punto di congiunzione tra melanconia e metafisica, termini entrambi caratteristici della pittura di De Chirico. Siamo, per l’esattezza, all’interno di quel “sogno da sveglio” che è la zona di confine tra il giorno e la notte, tra la vita e la morte. L’opera di Franz Kafka si colloca per una gran parte in questa terra di nessuno, nella quale la condanna è sempre incombente e la salvezza perennemente rinviata. Földényi si concentra su un racconto del 1917, Il cacciatore Gracco, per il quale Kafka si serve di una serie di spunti raccolti durante il soggiorno presso il sanatorio di Riva del Garda. L’annotazione del 1913 nella quale lo scrittore descrive un barcone dal cui «buio interno» spuntano «certe mani» misteriose, sembra già annunciare il destino dell’insondabile Gracco, che ha fatto della sua bara l’imbarcazione con la quale viaggia per il mondo. La sua è una «vita mortale» o, meglio, una «morte vivente».

In ogni caso, solo questa spettrale forma di esistenza può legittimamente insediarsi nell’astratta perfezione delle piazze melanconiche e metafisiche, delle spianate predisposte per le adunate dei dittatori, dei campi di sterminio allestiti secondo i dettami di una logica ineccepibile e spietata. Quella che socchiude la famosa persiana è, in definitiva, la mano di un fantasma. A volersi azzardare, però, una piccola obiezione al ragionamento di Földényi si potrebbe muovere. D’accordo, dalle Città Ideali gli esseri umani risultano banditi per sempre, se non da sempre. Ma è proprio su questo fondale di agghiacciante estraneità che Piero della Francesca ambienta la memorabile Flagellazione di Cristo esposta alla Galleria nazionale delle Marche di Urbino. Perché è la Passione che risveglia la compassione. Ed è il Figlio dell’Uomo che restituisce l’umanità a sé stessa.

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