giovedì 17 dicembre 2020
Inviato nel 1933 da una rivista a sondare che cosa pensano i popoli del Continente della Francia, il papà di Maigret scrive resoconti che sono lo specchio di una falsa idea di unità
Lo scrittore Georges Simenon (1903-1989)

Lo scrittore Georges Simenon (1903-1989) - Album

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Adelphi sta ripescando dall’opera di Georges Simenon i reportage. L’anno scorso ha pubblicato le sue cronache raccolte durante un viaggio a bordo di una goletta in lungo e in largo nel Mediterraneo. Era l’estate del 1934 e Simenon aveva trascorso già sei mesi percorrendo l’Europa continentale fino ai confini russi e traendone resoconti illuminanti sulle condizioni (e le ragioni) che prepararono il secondo grande conflitto del Novecento. Perché comincia a scrivere i suoi reportage, Simenon? Forse per conoscere meglio la natura umana, e perché deve anche mettere insieme abbastanza di che vivere. Allora qui si deve ricordare che Georges Sim, questo il nome con cui firmò alcuni dei primi romanzi che fecero da incubatrice al ciclo di Maigret, era una sorta di scrittore antropologo o psicologo, che sembra quasi sempre astenersi dal giudicare (perché la vita è un misto di bene e di male, spesso inestricabile e inspiegabile per gli stessi attori del dramma).

Ricorda un po’ Jouhandeau – per esempio, i resoconti dei processi ad assassini efferati compresi nel libretto dei Tre delitti rituali (sempre Adelphi) – ma anche Pierre Mac Orlan, che fu anch’egli giornalista e autore di reportage (già nella Grande Guerra) e romanziere prolifico, nonché critico d’arte. Nel libro La fin (edito nel 1919), Mac Orlan guarda allo sfacelo che quel disastro bellico e morale ha prodotto. Compie un viaggio da Coblenza a Francoforte e dà conto del fatto che nello sfacelo si è incistato già il virus bolscevico. La guerra è finita, a Francoforte esplode la voglia di tornare a vivere, il «trionfo del piacere in tutte le forme», dove quelli che se la passano bene ostentano il loro lusso e si concedono svaghi perversi. Ma molti soffrono la miseria. E in questo clima Mac Orlan è testimone di una insurrezione popolare che finisce nel sangue. Gli immancabili demagoghi incitano la massa alla rivoluzione e la gente attacca la polizia. Bilancio: undici marinai morti, diciotto rivoluzionari fucilati, centinaia di arresti. Si avverte qui la sferza di un vento che prepara tempi peggiori. Quelli a cui la Grande Guerra e la crisi economica, aggravata dal crollo del 1929, faranno da ostetriche. E qui ritroviamo Simenon.

Adelphi pubblica i suoi reportage sotto il titolo Europa 33 (pagine 378, euro 18), nella stessa collana dove erano già usciti quelli sul Mediterraneo, la “Piccola Biblioteca”, accompagnate da foto realizzate in gran parte dallo stesso scrittore. Il libro è un po’ di cattiva maneggevolezza, costringe a una ginnastica manuale perché la carta è troppo spessa (per consentire alle foto di non filtrare in trasparenza) ma anche il colore bianco, in questo caso per rendere meglio le foto di Simenon, allontana il libro dalla classica veste editoriale della maggioranza dei titoli del catalogo Adelphi. Uscirono, queste cronache–narrazioni, su una celebre rivista voluta da Gaston Gallimard e dedicata proprio ai reportage: “Voilà”. Come ricorda nella breve nota conclusiva Matteo Codignola, che cita grandi autori come Léon–Paul Fargue, ma dimentica che sulla rivista scrivevano altri giganti come Artaud e Desnos, le foto che accompagnano i testi – di solito eseguite da maestri del fotogiornalismo – in questo caso furono scattate, appunto, da Simenon o prese da qualche anonimo dell’epoca che aveva incontrato. Si deve però dire che gli scritti stessi di Simenon assomigliano a istantanee, polaroid che fotografano uno stato delle cose nell’Europa che si sta incamminando verso un’altra tragedia. Per questo le foto pubblicate nel libro valgono più come curiosità documentativa. Ma l’idea di estrapolare dagli album originali di Simenon queste foto – grazie alla collaborazione della Cineteca di Bologna – offre un quadro più completo del grande romanziere come reporter in parole e immagini.

Il primo scritto, che dà anche il titolo al libro, “Europa 33”, parte da una domanda che la rivista pone allo scrittore, ma finisce per essere in realtà la rappresentazione di una polveriera di cui molti all’epoca non avvertivano l’imminente esplosione. «Abbiamo detto a Simenon: “Un giorno un poeta ha scritto qualcosa che suonava pressapoco così: Ogni uomo ha due patrie: la propria e la Francia. È ancora così oggi?”». Simenon raccoglie la sfida ma ben presto si capisce che punta ad altro: la sua non sarà una descrizione dei fasti o meno della Francia all’estero, ma la restituzione di un umore, di giudizi e pregiudizi buoni e cattivi di cui si nutrono i popoli europei, di amori non più ricambiati oppure traditi, di impulsi che innescano i conflitti (dicevano gli antichi: «chi aspira alla pace, prepari la guerra»). E andò così, come sappiamo.

Simenon parte dai fiamminghi e descrive le chiese dei belgi. I fiamminghi del Nord sono scontrosi e taciturni; i valloni del sud sono rudi proletari, uomini della miniera o delle fonderie di zinco, ma «in un caso come nell’altro si tratta di tipi grevi e coscienziosi, insieme sognatori e rigorosi». Allora Simenon sale su un tram che si spinge fin nelle campagne e nota «chiese quasi tutte nuove, con spigoli netti e campanili troppo appuntiti, in cui l’odore di vernice delle panche prevale su quello dell’incenso». «Il parroco è nel suo ufficio. Una grande casa, la più grande del borgo, nuova anch’essa, con vetri verdi alle finestre e una targa di ottone su cui si legge: “Boerenbond”. Che significa: associazione di contadini». Di fronte all’ufficio bianco e pulito del parroco chiedere se la religione è in crisi, se i contadini sono di destra o di sinistra, se amano ancora la Francia, dice Simenon, «mi imbarazza». Unica certezza: «Tutti fanno parte del Boerenbond, il Boerenbond è fiammingo ». È il mondo delle corporazioni – quello che si ripropone oggi in forme diverse, anzi siamo un po’ tutti membri di nuove gilde sovrannazionali create dalla cultura digitale. Ad Anversa un tassista gli fa notare il grattacielo che era, all’epoca, il più alto d’Europa – un vanto di capacità e strumenti realizzativi. Ma aggiunge sprezzante: «È semivuoto, perché non sanno cosa metterci». Insomma, un simbolo di forza senza scopo. «Un piccolo paese è un paese che è stato grande e se lo ricorda», dice Simenon.

Certo vale anche per l’Olanda che ha dominato il Seicento, vale in altro modo per Lituania che fu in passato così forte da espandersi fino al Mar Nero ma poi fu espropriata di Vilnius dalla Polonia. «E se lo ricorda, anche se voi lo ignorate. I piccoli paesi ricordano sempre». «La riconquisteremo», dicono i lituani. E i polacchi replicano: «Non arretreremo di un centimetro, né in Lituania, né in Ucraina, né in Slesia, né...». Ma anche i polacchi pagheranno il dazio alla storia. «Ci vorrà un secolo di pace perché torniamo a essere una grande nazione» dice uno di loro. Quella di oggi? Dove nell’Ue la Polonia mette veti alle decisioni, paga le malattie del capitalismo più spinto a cui si è data, e la società sta perdendo la sua anima antica? Ma già nel 1933, mentre i night-club erano pieni, «davanti agli esseri stipati nei dormitori polacchi si fa fatica a pronunciare la parola uomo». Un polacco d’animo mite arriva a dire: «morire per morire... tanto vale crepare combattendo ». E Simenon confessa: «Non gli ho chiesto se ama la Francia. Capite?». Il viaggio continua, Romania: «La Francia ci ha fregati! Ora strizza l’occhio alla Russia»... E tanti fanno la fame, perché gli stessi contadini hanno perduto il buon senso che gli faceva produrre il grano migliore del mondo. A Bucarest dominano americani, inglesi, francesi. Speculano sulla fame dei poveri. «La Francia si rifiuta di prenderci sul serio...». È la stessa Romania dove i notabili e i possidenti si danno ai bagordi. O la Cecoslovacchia; oppure l’Ungheria dove Simenon si spinge nel suo lungo viaggio. La vita, dice, è una corsa campestre dove si parte in duemila e «tre concorrenti, o quattro, o cinque, si guardano in cagnesco, sbirciando il traguardo ».

E tutti quelli rimasti indietro? A pagare saranno i disperati e l’Europa intera dopo il 1939. Questi reportage hanno come fil rouge l’unità morale dei poveri condannati dalla crudeltà, dall’egoismo e dall’inettitudine miope dei potenti. Gli stessi tedeschi vanno «alla deriva come un pezzo di sughero». Il posto di lavoro oggi ce l’hai, ma domani potresti trovarti sulla strada. La svalutazione è tale che uomini ben vestiti si avvicinano chiedendo in elemosina un marco. Che non vale niente, poi. E Simenon annota un pensiero pungente che ci riporta alla franchezza della realtà: «Che cosa servirebbe esattamente? Le trovate di Freud per un po’ sono sembrate divertenti. Poi c’è stata la speculazione sul marco». Troppo conoscitore della natura umana e cosciente che il male e il bene sono un mistero profondo, per dar credito a Freud. E forse Maigret ci appare come il vero detective del cuore umano, colui che comprende le ragioni che la ragione non conosce. La risposta ai suoi committenti di “Voilà” è qui: «Esiste un’Europa ufficiale, un’Europa a uso dei francesi, immutabile da molto tempo, da talmente tanto tempo che non corrisponde più alla realtà ». L’Europa di cui parlavano nelle alte sfere, di cui parlavano i giornali riferendo dei colloqui nelle alte sfere, ma che da tanto tempo non corrisponde più alla realtà. Anche quella di oggi? Chiedetelo a Macron.

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