venerdì 21 febbraio 2014
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«Fra pochi minuti lei sa­rebbe apparsa. Si sareb­be seduta di fronte a me. E io avrei dovuto affron­tare la sua presenza ca­rico della mia vergogna e del mio pentimento. Consapevole della tragica posizione in cui ero fi­nito per l’evolversi della mia traiettoria persona­le. Impegnato per molti anni in un ostinato cam­minare verso il nulla, consacrato al servizio di un caparbio e stupido delirio sen­za senso che, finché è durato, è stato solo capace di seminare odio e dolore. Quella mattina mi disponevo a chiedere per­dono per un crimine imperdo­nabile ». Nella sala visite del carcere di Nanclares de Oca di Álava, Luis Carrasco Asenguinolaza atten­deva Maixabel Lasa. Erano tra­scorsi undici anni dal loro pri­mo incontro. Alla fine del lu­glio 2000, si erano trovati a qualche tavolo di distanza in un bar di Tolosa, nel Nord del­la Spagna. Luis non l’aveva neanche guardata: aveva occhi solo per l’uomo insieme a Maixabel. Nascosto dietro un menù, ne spiava ogni mossa. Doveva cogliere il momento migliore per ucciderlo. Gli or­dini dei capi di Euskadi Ta A­skatasuna (Eta) erano catego­rici: «L’obiettivo doveva essere eliminato». E Luis, all’epoca, e­ra un militante cieco e obbe­diente. Quella volta, però, non poté portare a termine la “mis­sione”: nel locale entrò un gruppo di persone che lo co­nosceva. Attese qualche gior­no e ritentò, senza intoppi. Due proiettili trafissero la schiena di Juan María Jáu­regi, ex governatore socialista della provincia di San Sebastián (Guipúzcoa), impegnato nel tro­vare una via d’uscita pacifica al conflitto che da trentadue anni insanguinava la sua terra, i Paesi Baschi. Proprio per questo gli indipendentisti di Eta l’avevano condannato a morte. La sentenza fu eseguita il 29 luglio 2000 per mano di un com­mando di tre uomini, guidati da Luis María Car­rasco Asenguinolaza. In quel momento, sua mo­glie Maixabel lo aspettava a casa per il pranzo, insieme alla loro figlia. Che cos’hanno da dirsi l’assassino di un uomo e la sua vedova? E che cosa effet­tivamente si sono detti carnefice e vit­tima, quel giovedì 26 maggio 2011, nella prigione dove l’ex etarra sconta la condanna a trentanove anni per il delitto? Se i frammenti di quell’incontro e, soprattutto, i segni che esso ha lasciato nei cuori dei protagonisti sono po­tuti uscire, è grazie al libro Los ojos del otro (“ Gli occhi dell’al­tro”), pubblicato in Spagna dal­la casa editrice Sal Terrae e già alla seconda edizione nel giro di qualche mese. Le ragioni del successo risiedono nel carattere eccezionale dell’esperimento rac­contato: le quattordici riunioni tra un gruppo di ex terroristi e alcuni fa­miliari a cui la furia etarra ha strappa­to un figlio, un marito, un fratello. «Incontri restaurativi» – in cui si cerca di ristabilire l’u­manità negata dalla violenza a partire dalla paro­la e dall’ascolto reciproco tra vittima e carnefice – accompagnati da un mediatore e avvenuti 2011 e 2012. La partecipazione al programma è chia­ramente volontaria e parte da alcune condizioni imprescindibili: il pentimento comprovato e il ri­pudio inequivocabile del terrorismo da parte dei responsabili che non ottengono, per la loro deci­sione, benefici o riduzioni di pena. Un percorso inedito per la Spagna. In cui la fine della lotta armata, annunciata dall’Eta alla fine del 2011, non ha rimarginato le ferite troppo fre­sche per le 829 vite spezzate dal fanatismo nel­l’ultimo mezzo secolo. La fine di un ciclo di ter­rore ha rilanciato, anzi, con urgenza la necessità di costruire un nuova convivenza senza rinun­ciare alla memoria. Il progetto, sostenuto dal­l’Ufficio per le vittime del governo basco – prima del cambio di gestione tra socialisti e popolari e ora interrotto da questi ultimi – è diventato un li­bro. Che è, al contempo, testimonianza e grido di speranza. «Dal punto di vista etico, sentivamo di avere dimostrato alla società l’esistenza di espe­rienze di questo livello nella lotta per la pace. E di vittime e carnefici capaci di tendersi una mano. Il loro esempio meritava di non cadere nell’oblio», racconta ad “Avvenire” la curatrice, Esther Pascual Rodríguez. Direttrice del carcere di Álava e coor­dinatrice dell’iniziativa, la donna ha fatto da me­diatrice in otto appuntamenti. Tutti – afferma – «terribilmente toccanti». Tutti tremendamente difficili. «È un percorso piccolo e stretto, però bel­lissimo. Che rinnova in chiunque lo attraversi – da protagonista o accompagnatore – la fede nel­l’uomo. E riempie di contenuto le parole ve­rità, giustizia, memoria. Ho imparato che gli esseri umani sono infinitamente più gran­di della sofferenza. La loro bontà non ha li­miti ». Certo, all’inizio della riunione, la tensione era palpabile. «Alla fine, però, le vittime scoprivano di aver incontrato un uomo o una donna come loro, non un terrorista. E i colpevoli, dopo il primo choc, si sono sentiti liberati». Dopo un paio d’ore di intenso dialogo, è il momento del commiato tra Luis e Maixabel. Assassino e vedova si scam­biano un abbraccio fugace. Maixabel si volta. Sta per uscire dalla stanza. In quel-­l’istante si ferma e guarda indietro, verso l’uomo alle sue spalle. I loro sguardi si incro­ciano. Due esseri umani e i loro dolori si spec­chiano. L’uno negli occhi dell’altro.
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