sabato 19 maggio 2018
La tragedia di Euripide apre il 54° Festival di Siracusa. La regista Emma Dante mette al centro la mancata accettazione della morte, con un’efficace e innovativa scenografia
Eracle, l'indicibile dolore attraverso i millenni
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«Un dolore che non si può dire con le parole » e giù per terra. È ciò che dice il Messaggero, prima di crollare al suolo, a strage ormai avvenuta. È la quintessenza del paradosso per chi è deputato a raccontare, a dare colore, calore e carne al verbo. È la negazione di se stesso e della sua unica funzione vitale specie in un’arte e in un contesto collettivo in cui era vietato mostrare qualunque forma di esplicita violenza e non restava che dirla. Siamo quasi all’epilogo della tragedia e il Messaggero, che si arrende alla sua afasia e viene meno, ha il compito in effetti arduo ma mirabile di narrare la follia che ha stravolto la mente di Eracle inducendolo a compiere il più orribile dei misfatti: l’orrenda carneficina dei suoi cari, della moglie e dei tre figlioletti. È la tragedia euripidea più spietata, nel senso anche letterale dell’assenza di pietas; gli dei, infatti, più volte vengono appellati come «stupidi e ingiusti» e il nonsenso e l’assurdità dominano e schiacciano l’esistenza umana. E quella frase sull’impossibilità della comunicazione dell’ineffabile orrore diventa non solo l’ammissione dell’impotenza dell’uomo ma è anche la chiave di lettura e di trasposizione scenica a cui si è ispirata pienamente Emma Dante. Alla mai scontata regista palermitana è stata affidata l’apertura del 54° Festival del Teatro Greco di Siracusa e l’idea del direttore artistico Roberto Andò si è rivelata vincente e convincente. La creatrice di spettacoli restati memorabili nell’immaginario collettivo teatrale per originalità e visionarietà, tra cui mPalermu, Carnezzeria, Vita mia e da ultimo La Scortecata, ha trovato anche nell’Eracle di Euripide la possibilità di dare voce e vita alla sua aspirazione di un teatro totale strizzando da ogni forma d’arte, scenografica, coreografica e musicale, un distillato di espressività sconosciuto alla sola parola e in grado di evocare e rendere immaginifico l’indicibile. «Ho trovato geniale e perfettamente in linea col mio modo di intendere il teatro – spiega Emma Dante – che il Messaggero, portavoce per antonomasia di infiniti dolori, ammetta la sua incapacità locutoria. E allora ho deciso di farlo svenire dopo quell’affermazione ». In realtà dopo lo svenimento si lancia in un tragico resoconto, reso adamantino da Katia Mirabella, dell’eccidio paterno provocato dalla gelosa Era che ha visto il suo Zeus congiungersi con Alcmena per dare alla luce il semidio Eracle. Ma la parola, seppur lancinante, nell’allestimento della Dante non è l’unica e la più affilata delle armi. Ci sono ben altri aspetti molto più eloquenti.

Partiamo dall’emblematica scenografia di Carmine Maringola in cui tutto parla di morte, anzi la esplicita in modo vistoso e ingombrante: sette croci lignee mobili come piccole pale eoliche, dodici teschi, venti sepolcri marmorei, una grande piscina centrale colma di acqua purificatrice e sullo sfondo la grande skenè di loculi con 254 foto di cari estinti. «Il nervo scoperto da enfatizzare – precisa Emma Dante – è la mancata accettazione del mo- rire che attraversa tutto il testo euripideo. La morte è dappertutto, si spera nel ritorno di Eracle dal regno dei morti, tutti ne parlano, ma poi nessuno la accetta, nemmeno il vecchio malandato padre Anfitrione sulla sedia a rotelle vuole saperne di morire». Ma ancor più eclatante della scenografia funerea è la scelta della regista siciliana di “usare” attrici per tutti i ruoli, anche quelli maschili. L’effetto non è né stravagante, né eversivo. E nemmeno ci sono coloriture androgine o ermafrodite. Tutto risulta semplicemente coerente perché al servizio di un’idea lampante e costante: ammantare di ironia la tragedia, svelare il grottesco che c’è nel dramma evocando un umorismo e sarcasmo di stampo elisabettiano.

Contribuiscono in tal senso le musiche rutilanti, estatiche, ancestrali o elettroniche di Serena Ganci, i costumi stile film fantasy di Vanessa Sannino, le coreografie di Manuela Lo Sicco che danno vita a movimenti ora sincopati, ora dinoccolati, a danze macabre, a balli in trance da tarantolati, o da dervisci rotanti, comunque a una parata di ferite, storture e curvature corporee immancabili nel teatro della Dante. E meritano di essere menzionate per dedizione e precisione interpretativa le protagoniste della tragedia, dall’Eracle maschiaccio di Mariagiulia Colace, al monolitico despota Lico di Patricia Zanco, alla accorata Megara di Naike Anna Silipo, alla sorprendente versatilità del vecchio Anfitrione di Serena Barone. Così come resta nella memoria lo stupefacente coup de théâtre finale con il coro che con un trasformismo alla Fregoli ribalta i propri lunghi abiti neri in tappeti di migliaia di rose rosa. Non brilla invece in originalità l’altra tragedia, che si alterna con l’Eracle fino al 24 giugno al Teatro Greco di Siracusa, l’Edipo a Colono di Sofocle allestito dal greco Yannis Kokkos. Pur se impeccabile nella raffinata regia e nella interpretazione carismatica di Massimo De Frankovich (Edipo), possente e misurata di Sebastiano Lo Monaco ( Teseo), intensa di Fabrizio Falco (Polinice), limpida di Roberta Caronia (Antigone), ricca ed equilibrata di Danilo Nigrelli (Messaggero), lo spettacolo stavolta dice tutto, troppo, con le sole parole. Risulta godibile e fruibile anche senza guardarlo, ascoltandolo ad occhi chiusi. Innegabile merito comunque dell’impostazione registica è però la scelta di esplicitare il tema dell’accoglienza con i sentimenti di philìa e xenìa ampiamente dibattuti nell’opera e di suggerire un finale cristologico alla misteriosa morte del vecchio Edipo.

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