domenica 2 settembre 2018
Lo scrittore presenterà a Mantova il romanzo “Città sospesa. Madrid 1936”: «Non siamo un popolo riflessivo: siamo viscerali, non sappiamo ascoltare né dialogare. Solo il calcio ci sfianca un po'...»
Lo scrittore spagnolo Eduardo Mendoza

Lo scrittore spagnolo Eduardo Mendoza

COMMENTA E CONDIVIDI

«Il giovane Atteone va a caccia e per caso sorprende Diana nuda, così quella dea schiva lo colpisce con una freccia trasformandolo in un cervo. Atteone viene subito sbranato dalla propria muta di cani, senza poter far nulla per evitarlo. Per raffigurare l’episodio, Tiziano sceglie un momento intermedio: l’essenziale è già successo o sta per succedere (…) L’istante in cui l’errore è già stato commesso e la freccia scoccata. Il resto è solo questione di tempo». A descrivere così il celebre dipinto di Tiziano La morte di Atteone è Manuel Azaña, primo ministro a cui toccò vedere la traballante Seconda repubblica spagnola venire risucchiata nel vortice della Guerra civile e finire divorata dalla dittatura franchista. Almeno queste sono le parole che mette in bocca al politico Eduardo Mendoza in Città sospesa, Madrid 1936, romanzo insignito in patria del prestigioso Premio Planeta 2010 e appena pubblicato in Italia da (DeA Planeta Libri. Pagine 472, euro 16,00).

Lo scrittore catalano - che sabato prossimo presenterà il romanzo al Festivaletteratura di Mantova - ha, stavolta, “cambiato” la sua Barcellona, teatro di molti libri precedenti, per la capitale. Una città sospesa, appunto. Sull’orlo del baratro. In attesa di espiare la condanna già scritta, come Atteone. Eppure, forse, ancora in tempo per fare un improvviso balzo indietro. «È un momento straordinario: il tempo delle grandi decisioni. Tutto sembra già scritto, eppure le scelte dei singoli possono ancora scompaginare le carte», afferma l’autore, insignito nel 2016 del massimo riconoscimento letterario per chi scrive in castigliano, il Premio Cervantes.

Mescolando figure storiche - da un cupo Francisco Franco a un effervescente José Antonio Primo de Rivera -, a personaggi inventati, Mendoza si confronta con uno dei periodi cruciali della storia spagnola. Attraverso le singolari vicende di Anthony Whitelands, «algido ma non troppo» esperto d’arte inglese, inviato a Madrid per la perizia di un inedito quadro di Diego Velázquez nelle mani di un nobile dalle simpatie falangiste. In breve, l’ignaro Anthony si trova coinvolto in una serie di intrighi e complotti internazionali dagli esiti imprevedibili. Solo la straordinaria penna di Mendoza riesce a cucire insieme la raffica di avventure e colpi di scena. Stemperando il dramma con l’ironia. Un mix che tiene il lettore incatenato al racconto fino all’ultima pagina.

Allora Mendoza, stavolta ha “tradito” Barcellona. Come mai?

«Ebbene sì, ho tradito Barcellona. Non sopporto più la “questione catalana” e il dibattito indipendenza no, indipendenza sì. Così sono fuggito a Madrid… Ovviamente scherzo. Mi interessava raccontare quel particolarissimo momento nella vita della città».

Che cosa intende?

«Negli anni immediatamente precedenti alla Guerra civile, Madrid era la città più interessante d’Europa. Era in atto una potente trasformazione sociale e questo faceva sì che si respirasse un’aria di novità, di libertà… In poco spazio - Madrid era ancora relativamente piccola - si concentravano gli estremi: la modernità più assoluta e la tradizione più rigorosa. Sulle strade strette, si affacciavano le taverne, sempre aperte. Là, artisti surrealisti arrivati da Parigi, grandi della letteratura latinoamericana, toreri in auge e ballerini di flamenco condividevano gli stessi tavoli, addossati gli uni sugli altri. Erano queste le trincee dove, bicchiere dopo bicchiere, si combatteva la battaglia tra le grandi idee del Novecento: comunismo, anarchismo, trozkismo, socialismo, fascismo».

La silenziosa presenza di Diego Velázquez accompagna la narrazione. Non sarebbe stato più adatto il tragico Goya per la Spagna pre-bellica?

«Ho una grande simpatia per Velazquez. Era un uomo indeciso, pacifico, che all’azione preferiva il ruolo di testimone muto. Per molti anni, sono stato nel Patronato del Prado. Facevamo le riunioni quando il museo era chiuso. Dunque, alla fine degli incontri, passeggiavo per i corridoi deserti. Ogni volta, mi ritrovavo di fronte ai quadri dei Velázquez. Il fatto è che con Velázquez si può sempre conversare. Con Goya, che amo ugualmente tanto, no».

Uno dei personaggi di Città sospesa è José Antonio Primo de Rivera. Perché l’ha scelto?

«Perché è estremamente interessante. Primo de Rivera era un affascinantissimo idiota. Simpatico, bello, oratore formidabile eppure del tutto privo di idee. Un irresponsabile: metteva una pistola in mano ai ragazzini di 16 anni e li mandava ad affrontare i “comunisti”. Una follia. Il franchismo ne ha fatto un eroe. Tanto era stato fucilato dai repubblicani, dunque era inoffensivo per il caudillo… Con il ritorno della democrazia, Primo de Rivera è completamente scomparso. Non potevo resistere alla tentazione di raccontare un simile scherzo della storia».

La Guerra civile, invece, non è affatto sparita. Anzi, è quanto mai presente nella memoria collettiva. Perché la Spagna fa così tanta fatica a chiudere i conti con tale pagina del proprio passato?

«Non siamo un popolo riflessivo: siamo viscerali, non sappiamo ascoltare né dialogare. Per fortuna c’è il calcio che ci toglie un po’ di energia… (ride)».

Negli ultimi mesi, s’è riaperto il dibattito sui resti di Francisco Franco. Il dittatore è sepolto in una tomba di Stato nel complesso monumentale della Valle dei caduti. Ora il governo socialista ha deciso di rimuoverlo. Che cosa ne pensa?

«A volte mi dico: “Se ci togliessero la Guerra civile, di che cosa parleremmo noi spagnoli?” Ciclicamente rispolveriamo Franco, i repubblicani… A proposito della tomba del dittatore, per me, se lo vogliono portare via subito, facciano pure. O se invece decidono di lasciarlo, che rimanga al suo posto, in quel monumento tanto grande quanto brutto. Il punto non che se ne vada o resti. Vorrei solo che Franco fosse dimenticato. Per lo meno, smettiamo di regalargli la prima pagina dei giornali!»

Ha accennato alla questione catalana. Vede spiragli per una possibile soluzione?

«Non al momento. Metà della popolazione vuole una cosa, l’altra metà l’opposto. Necessariamente una delle due parti resterà scontenta. E forse anche l’altra… Il problema si trascina da 150 anni. Finora, però, nessuno ha avuto la creatività, il coraggio e la generosità per trovare una soluzione autentica e di lungo periodo. Così, quando la questione risalta fuori, gli uni e gli altri cercano di manipolarla per ragioni elettorali».

© Riproduzione riservata
COMMENTA E CONDIVIDI

ARGOMENTI: