
Interpretazione scenica della “Expositio Sancti Evangelii secundum Iohannem” - Andrea Avezzù
En archè en o Lògos. Ovvero In principio erat Verbum. Incipit degli incipit, la cui vertigine reseca alla radice ogni segno diacritico che discerna teologia, poesia, filosofia. Solo la mistica può davvero arrivare lì, alle soglie dell’abisso della Parola, dove il discorso umano sembra destinato a fallire? Può una ferrea costruzione logica, strutturata secondo i procedimenti e i più solidi sillogismi del pensiero medievale, scardinarsi nel proprio principio e, aprendosi alla contraddizione, dimostrare l’indimostrabile? Sono queste le sensazioni e le domande (forse anche i dubbi) che lascia l’esperienza della Expositio Sancti Evangelii secundum Iohannem, progetto speciale dell’Archivio Storico della Biennale di Venezia, che nei giorni scorsi (e in replica da oggi a sabato) ha portato nel Portego delle colonne della Scuola Grande di San Marco una interpretazione scenica di quello che è considerato il capolavoro in lingua latina di Meister Eckhart. Il regista e drammaturgo Antonello Pocetti ha ridotto in modo efficace l’imponente testo del teologo domenicano, caratterizzato da tutte le osticità possibili di un trattato medievale, piegando a proprio vantaggio il rovello linguistico e la meccanica allegorica in un flusso sonoro cosparso di immagini e di reiterazioni. Le pieghe dello spazio testuale giovanneo non vengono sciolte ma esaltate, in una continua risacca sul logos che è «parola e idea» (« Il logos o l’idea delle cose, si trova in esse, singolarmente, con tutta se stessa, e nondimeno è completamente al di fuori di ogni singola cosa, tutta intera all’interno, tutta intera all’esterno»). La struttura scenica ideata da Antonino Viola abbraccia l’atrio in tutta la sua ampiezza con una architettura lignea rettangolare in cui si raccoglie la comunità temporanea di performer e pubblico. La struttura intende alludere alla schola cantorum medievale, ma è anche un’arca dell’ascolto, ispirata idealmente a quella del Prometeo di Nono: una struttura concentrica – aristotelica, in un certo senso – che mette al cuore la parola, nelle voci di Federica Fracassi, Leda Kreider e Dario Aita, collocata nel nucleo della tenda/cella da cui si riverbera e si espande: nel pubblico prima e quindi nei corpi corali sul perimetro – da dove la Cappella Marciana interpola i testi di Eckhart con monodie del repertorio patriarchino – e nelle proiezioni video alle pareti, realizzate dall’artista e computer graphic designer Andrew Quinn, diverse per ogni serata (particolarmente efficaci quelle della prima, dedicata al prologo giovanneo, dove le lettere dell’incipit diventano scrittura che dà forma al reale). Non teatro di parola, né musicale, né tantomeno sacra rappresentazione, questa Expositio Sancti Evangelii secundum Iohannem sfugge a qualsiasi etichetta – persino quella più blanda e inclusiva di performance. La parola qui è tutto: corpo, architettura, silenzio. La grande macchina del linguaggio messa in campo da Eckhart non può che sgretolarsi sull’orizzonte degli eventi. In questo senso è davvero efficace la scelta di concludere il primo capitolo con la preghiera di Agostino, citata dallo stesso domenicano: « Anima mia, sii sorda, nell’orecchio del tuo cuore, al tumulto della tua vanità. Ascolta la parola». Il presidente della Biennale Pietrangelo Buttafuoco ha coniato per questo evento proprio una inedita Biennale della Parola: « La parola fa il mondo, nella parola l’umanità si rivela, con la parola il destino di tutti si restituisce all’Eterno. Il progetto speciale che la Biennale di Venezia dedica all’Expositio Sancti Evangelii secundum Iohannem di Mastro Eckhart pone attenzione al verbo, che di tutto è origine, per farne ascolto. La parola è ciò che vi è di più certo nell’impasto umano e il dare senso al mondo – nella storia lunga e nascosta della vita – è l’esercizio tutto di vertigine che Eckhart forgia in una direzione che oggi sperimenta un fatto d’arte: un risuonare del verbo nella carne, nella voce e nell’azione scenica». Come nota non troppo a margine, pare necessario sottolineare che bisognava attendere un presidente di Biennale di fede islamica per trovare un evento (senza dubbio laico) che si interroga sul Vangelo e sulla teologia come fondamentale fatto culturale, senza la necessità di addomesticarne la natura in una blanda e politicamente corretta “laica spiritualità”. Nelle prime cinque serate di debutto, il Commento al Vangelo di Giovanni è stato introdotto da una personalità ogni volta diversa del mondo culturale, filosofico, religioso: il 5 marzo dal cardinale José Tolentino de Mendonça, prefetto del Dicastero per la Cultura e l’Educazione, il 6 marzo dal filosofo Peter Sloterdijk, fra gli autori che maggiormente hanno contribuito alla storia delle idee del secondo novecento, quindi dalla storica dell’arte e curatrice Cristiana Collu, direttrice della Fondazione Querini Stampalia, la studiosa della cultura classica Monica Centanni, docente di Lingua e letteratura greca all’Università Iuav di Venezia, e infine il patriarca di Venezia Francesco Moraglia. Nella sua introduzione Tolentino, poeta teologo e teologo poeta, contro il rischio di una dimidiazione del testo giovanneo, ricorda che la vertigine giovannea non sta nel puro Logos ma nell’incontro, «scandalosamente cristiano», con la sarx (Verbum caro factum est et habitavit in nobis, enuncia l’explicit del prologo). Un incontro reso inevitabile dal mistero di un Dio che non può restare in silenzio né, tanto meno, davvero “immobile”: « Il Logos certamente rinvia al mistero di Dio, quel silente, densissimo e irremovibile enigma che avvolge il suo Essere, ma ci fa anche sbarcare in quell’ampio golfo che è il desiderio divino di rivelazione. Non è per caso che uno spirito acutissimo come quello della filosofa Simone Weil, suggerisca che la traduzione del versetto iniziale del prologo di Giovanni, “In principio era il Logos”, dovrebbe essere: “In principio era la relazione” ». La vera soglia della mistica, dove la ragione si arresta, non è l’intangibilità di un logos che «nella tradizione filosofica greca, e sotto forma di dabar (parola) nell’ebraismo, è un’entità metafisica o religiosa delle più immateriali che esistano» quanto che esso sia assurdamente carne, perché «significa che Dio stesso si è associato nel più radicale dei modi alla nostra umanità, in ciò che essa ha di estremo, vulnerabile e pressante ». Dunque, «il Logos divino si è rivelato in un pathos umano concreto. In principio non c’è un concetto: c’è un’etica della relazione, c’è la somatizzazione di Dio nella visibilità della carne. In principio ci sono dunque un corpo, una storia». Peter Sloterdjik muove invece dal punto di crisi in cui si trova il linguaggio. Se per Aristotele gli esseri umani sono quegli animali che possiedono il logos, e dunque senza il linguaggio non c’è umanità », in realtà «ancora oggi non sappiamo davvero cosa sia il logos, e proprio in questi giorni ne facciamo una strana e tragica esperienza: per migliaia di anni, infatti, abbiamo vissuto nell’incomprensione totale del logos, perché con l’arrivo dell’intelligenza artificiale siamo costretti a riconoscere che non abbiamo mai davvero colto l’essenza del linguaggio. Attraverso l’imitazione meccanica, infatti, la nostra comprensione convenzionale del linguaggio viene completamente decostruita e smantellata come un sistema di errori e semplici cattive abitudini che indossano le vesti della comprensione». All’interno del linguaggio, osserva il filosofo tedesco, «si deve distinguere tra chiacchiere e parole di verità. E il linguaggio della verità è quella disperata minoranza della scienza che di tanto in tanto produciamo quando non ci limitiamo a ripetere i giochi linguistici quotidiani». Quindi Sloterdijk pone una domanda: «Se un dio si rivolgesse all’umanità, quale lingua sceglierebbe? Parlerebbe agli esseri umani come fanno le venditrici al mercato quando si incontrano al mattino vicino alla fontana? Oppure si esprimerebbe in un’altra lingua? All’interno del linguaggio umano deve esistere una ragione nascosta che può essere usata sia dagli individui che dicono la verità sia dagli dèi che intendono inviare un messaggio nella frequenza della capacità umana di dire la verità. Se questa frequenza non esistesse, neanche gli dèi potrebbero parlare all’umanità, perché se l’umanità fosse completamente esclusa dalla capacità di dire la verità, persino un dio non potrebbe penetrare nell’oscurità del chiacchiericcio umano. Ed è qui che sentiamo gli inizi del Vangelo di Giovanni, dove si dice: “In principio era il Verbo”. Non si dice “In principio era una lingua”. Non si dice “In principio era il chiacchiericcio”, cosa che avrebbe potuto dire. E non si dice nemmeno “In principio era il denaro”, che è ciò che la maggior parte di noi direbbe se gli venisse chiesto cosa c’era davvero all’inizio. Ma si dice: “In principio era l’amore”, nella qualità per cui il dire la verità è una possibilità umana. Se così non fosse, tutto ciò che facciamo sarebbe vano».