domenica 12 maggio 2019
Al via la stagione di spettacoli classici. Debutto per “Elena” e “Le troiane”. Storie antiche che scuotono il presente: «Il naufrago è sacro». Livermore: «Euripide scriveva così 2.400 anni fa»
Una scena de “Le troiane” di Euripide, per la regia di Muriel Mayette-Holtz, al Teatro Greco di Siracusa. Protagonista Maddalena Crippa nel ruolo di Ecuba / Foto Centaro

Una scena de “Le troiane” di Euripide, per la regia di Muriel Mayette-Holtz, al Teatro Greco di Siracusa. Protagonista Maddalena Crippa nel ruolo di Ecuba / Foto Centaro

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Il mare nero della notte che inghiotte i naufraghi diventa rosso come il sangue sparso per le troppe guerre. E gli alberi della Carnia spezzati da un vento di inaudita violenza ricordano la furia cieca che travolge e spezza la vita di inermi civili, donne e bambini, nei conflitti di tutti i tempi. Parte da idee sceniche forti e contemporanee il nuovo corso del Teatro Greco di Siracusa, sotto la direzione del Sovrintendente della Fondazione Inda - Istituto Nazionale del Dramma Antico, Antonio Calbi. Donne e guerra è il tema forte e necessario della 55esima stagione inaugurata giovedì scorso con due capolavori di Euripide, Elena con la regia del torinese Davide Livermore e Le Troiane, con la regia della francese Muriel Mayette-Holze. A completare la trilogia degli spettacoli, che chiuderanno il 22 luglio, la commedia pacifista di Aristofane Lisistrata con la regia di Tullio Solenghi.

Tre registi che debuttano a Siracusa in tragedie classiche rinfrescate da snelle traduzioni commissionate ad hoc. Come quella di Walter Lapini, che firma la traduzione di una applauditissima Elena, che ha colto nel segno, in questi tempi in cui le antiche leggi del mare vengono stravolte dalla miopia della politica. Quando la vecchia serva del palazzo di Proteo scaccia un re Menelao straccione, naufragato sulle coste dell’Egitto al ritorno da Troia intimandogli «vai altrove» perché «qui da noi i porti sono chiusi», un sussulto scorre fra i 5000 spettatori che affollano la cavea del Teatro Greco. Ineccepibile la replica di Menelao: «Ma io sono un naufrago e il naufrago è sacro». «Non ho strizzato l’occhio a nessuno, Euripide scriveva così 2400 anni fa» ci spiega Davide Livermore rivendicando un profondo studio filologico. «La tragedia greca è fondante anche del teatro d’opera – prosegue il regista che ha stupito con l’Attila di Verdi cinematografico all’apertura della stagione della Scala –. E tra gli archetipi fondanti della nostra civiltà sta la sacralità dell’uomo». Concetti che il regista pone con una innovativa messa in scena ipertecnologica, da lui curata, che si sposa con le antiche pietre di Siracusa. Per raccontare un mito che Euripide riprende da Stesicoro: la donna andata a Troia con Paride non è Elena, bensì una immagine fatta d’aria creata per vendetta da Era, quindi la sanguinosa e lunga guerra sotto le mura di Ilio è perfettamente inutile. La vera Elena, invece, vive in Egitto sotto la tutela del buon re Proteo nell’attesa del ritorno del marito Menelao. Il quale vi arriva per un naufragio, e dovrà cercare di riprendersi la moglie vera, ingannando il figlio dell’ormai morto Proteo, il capriccioso re egiziano Teoclimeno abbigliato come uno ricco e viziato re francese del 1700. Una tragicommedia ricca di spunti attuali, giocati abilmente fra tragedia e beffarda ironia. L’orchestra allagata diventa un mare nero in cui gli attori recitano con i piedi a mollo, «un abisso in cui tutti si incagliano e puntano in basso» spiega Livermore, nel quale si muovono imponenti macchine sceniche, il relitto del brigantino di Menelao e l’obelisco di Teoclimeno. Mentre i potenti e maschi elementi del coro danzano e mettono in moto sofisticatissimi sensori subacquei che trasformano il movimento dell’acqua in musica. Livermore, grazie anche alle musiche contemporanee di Andrea Chenna, compie una sofisticata operazione di rimando alla musicalità originaria perduta della tragedia antica, curando anche le raffinate pluri tonalità del coro e valorizzando l’afflato divino della veggente Teonoe (l’ottima Simonetta Cartia) in un canto di soprano verso galassie e spazi siderali che scorrono sul led. Perché «gli dei sono una cosa seria» per Livermore, che mette «l’armonia al servizio della poesia». Al servizio, quindi, anche della dignità della donna. Elena, nella versatile interpretazione di Laura Marinoni che passa con disinvoltura dalla potente disperazione alla parodia, è una anziana che ricorda il passato in un lungo flashback. Sarà tutto vero quello che dice? In un rimando continuo di specchi, una magnifica d’oro vestita Elena, luccicante come una triste sirena, è una donna forzata all’esilio, la donna più ingiustamente diffamata del mondo per una guerra di cui non ha colpe, vittima quindi di una violenza psicologica senza pari. Ma è anche capace di abbindolare, nella parte grottesca dell’opera, il povero Teoclimene per farsi prestare una nave con cui poi fuggirà con l’amato Menelao (Sax Nicosia). Trionfa alla fine la giustizia, ma resta, ed è questa la vera e cruda realtà disvelata nel finale, il dolore per una guerra inutile.

Alle spalle di una Elena dai capelli bianchi che ha visto morire tutti intorno a sé, resta solo un mare di sangue da cui giunge la nenia dolente di una madre che piange sul figlio morto, una autentica registrazione su 78 giri di una donna macedone degli anni 20. Quante altre donne hanno pianto e piangono oggi i figli morti inutilmente in guerra? Quanti bambini vittime innocenti dei conflitti? Ce lo ricordano Le troiane di Euripide, una tragedia tutta al femminile dalla parte delle sconfitte. Alla moglie di Ettore, Andromaca viene strappato dalle braccia dai soldati greci il piccolo Astianatte, trascinato via fra le grida per essere gettato giù dalle rocca di Troia. La nonna Ecuba, una potente Maddalena Crippa, in un lungo compianto che stringe il cuore si chiede: «Chi può avere paura di un bambino?». «I greci danno le parole all’indicibile, a dei dolori insostenibili e trovano il modo di compatirli insieme alla comunità – commenta l’attrice –. Questo nel nostro mondo è andato perduto, siamo soli, divisi e separati e non sappiamo più esprimere quello che ci attraversa. I greci dimostrano il valore del pianto e del viverlo insieme ali altri». «È inaccettabile la paura che agisce senza il filtro della ragione» dice alle nostre coscienze Euripide attraverso il coro delle giovani donne troiane, che cantano con aria di sfida, chitarra alla mano, brani d’amore su musiche che ricordano la rivoluzione cubana. Sono loro che correvano cercando di sfuggire agli spari del nemico in un bosco creato dall’architetto Stefano Boeri con i tronchi di 100 alberi spezzati provenienti dalla Friuli Venezia Giulia. Donne in fuga, uccise o ferite o violate che ricordano le tragiche immagini della guerra in Bosnia o in Siria, mentre tutti, Troiane e Greci, sono ricoperti della medesima polvere, come quella che avvolse New York l’11 settembre. «Non ho voluto distinguere vincitori e vinti nei costumi perché in guerra non vince nessuno», spiega la regista Muriel Mayette-Holtz. «L’opera è un canto di speranza in omaggio alla vita. Le Troiane accettano con coraggio la loro sorte; queste donne sono capaci di marciare sulla propria pena: sono loro le vere eroine della guerra».

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