
Uno degli striscioni dedicati a Denis Bergamini (1962-1989) il calciatore del Cosenza assassinato a cui è dedicata la docuserie di Sky "Il cono d'ombra"
«Mi piace vivere non ho niente di particolare da chiedere». Questa frase di Denis Bergamini, pronunciata in una delle ultime interviste televisive rilasciate quando era il centrocampista del Cosenza, il n. “8”, l’idolo indiscusso dei tifosi dello stadio San Vito, riecheggia ancora nella mia memoria di cuoio, e si spera anche nelle coscienze, specie quelle sporche, che hanno voluto che questo ragazzo venisse ucciso: il 18 novembre del 1989. Sono passati quasi 36 anni da quel delitto, e 25 anni, era il 2000, quando per la prima volta tornai ad approfondire il caso della scomparsa misteriosa del centrocampista assassinato verso sera sulla Statale Jonica, località Roseto Capo Spulico. Una fine che allora si disse “tutte da chiarire”. In un ristorante di Monticiano (Siena), Carlo Petrini, la gola profonda del calcio marcio italiano, nel 2000 mi raccontava della sua inchiesta personale che da lì a poco sarebbe confluita nelle pagine del libro Il calciatore suicidato (Kaos Edizioni, 2001). Petrini, per andare a fondo al mistero del “calciatore suicidato” si era spinto fino a Cosenza, la città che dal 1985, anno dell’approdo di Denis in rossoblù, l’aveva adottato. Petrini raccolse molti pezzi di verità e per questo fu anche minacciato con tanto di lettere anonime, ma anche con una serie di testimonianze false e depistaggi, i quali in fase investigativa prima e nelle aule dei tribunali poi, hanno dato luogo a ben più gravi insabbiamenti e ad una serie di errori giudiziari che vanno ascritti al fascicolo “malagiustizia”. Questo è il principale faldone ideale che ha ispirato la docuserie di Pablo Trincia, Il cono d’ombra. La storia di Denis Bergamini| (4 puntate in onda su Sky TG24, Sky Crime, Sky Documentaries, Sky Sport e Now dal 27-28 giugno e 7 episodi in podcast su tutte le piattaforme ). «Sì, la scintilla che è scattata per far luce sul caso Bergamini è il cono d’ombra che ho visualizzato quando ho letto e ascoltato le voci dei testimoni, in primis i suoi compagni di squadra del Cosenza – racconta Pablo Trincia - . Questi, con il loro ricordo personale di Denis mi sono apparsi come dei fotogrammi al buio e quel cono d’ombra di fatto è rimasto fermo lì, dal novembre del 1989, sulla piazzola di sosta di Roseto Capo Spulico dove Bergamini è stato assassinato. Da lì non ci siamo più spostati e a frenare il corso della verità è stata la malagiustizia con magistrati che non hanno indagato fino in fondo o carabinieri che hanno preso male le misure sul luogo del ritrovamento del cadavere di Denis… Ma dobbiamo parlare anche di “malamedicina”: tecnici e periti scientifici che oggi ammettono di avere stilato relazioni che non avrebbero dovuto firmare e medici legali che serbano forti dubbi sul proprio operato di allora».
Con un visual alla Dogville la docuserie scritta da Trincia, Debora Campanella e Paolo Negro che cura anche la regia, tenta di fare luce una volta per tutte sui tanti lati oscuri, dall’omicidio passato per suicidio senza che Bergamini avesse un solo osso rotto dopo che gli era passato sopra un camion che trasportava 125 quintali di mandarini, fino alle innumerevoli contraddizioni dell’unica condannata, in primo grado, per l’omicidio Bergamini, l’ex fidanzata del calciatore, Isabella Internò. «Con la Internò non è stato possibile parlare e quindi per compensare l’impossibilità di avvicinarla abbiamo inserito gli audio del primo processo del 1991», spiega Trincia. Un racconto assurdo quello della Internò reso davanti al giudice di Castrovillari e fedelmente riportato nella docuserie: «Dovevo accompagnare Denis a Taranto perché doveva partire, si era scocciato del calcio, voleva andare alle Azzorre… Poi ci siamo fermati nella piazzola e ci siamo messi a parlare. Lui voleva andare fuori e io pregavo che doveva restare. Lo pregavo… “Allora dammi la possibilità di chiedere l’autostop - disse - . Se le prime cinque macchine non si fermano torno a Cosenza con te”. Denis allora è sceso e guardava le macchine, poi come un tuffo in piscina si è buttato sotto il camion. Prima però mi ha fissato e mi ha detto: “Ti lascio il mio cuore, ma non il mio corpo”».
Questa la presunta scena del finale di partita con l’esistenza di Denis, secondo il racconto reso dalla Internò. Ma Bergamini non si sarebbe mai suicidato, perché era un ragazzo che amava il calcio e la vita sopra ad ogni cosa e all’indomani di quel drammatico 19 novembre non vedeva l’ora di vivere l’adrenalina da derby contro il Messina. A partire da Michele Padovano, tutti i compagni di Denis parlano di un ragazzo dotato di una straordinaria vitalità e di un talento con prospettive future in Serie A (»mi piacerebbe andarci in A, con il Cosenza», rispose alla stampa che lo informava: Parma e Fiorentina sono pronte ad acquistarlo). Ma il suo destino era segnato perché era finito nelle mani di «qualcuno che mi vuole male», come confessò la settimana prima di essere ucciso alla sua nuova fidanzata, Roberta. Tornato per una breve vacanza a casa dei suoi genitori, a Boccaleone, ricevette una strana chiamata telefonica al termine della quale Denis apparve provato agli occhi della sua famiglia, «sudava a freddo»(testimonianza del padre Domizio). Forse a chiamarlo fu la stessa persona del giorno della sua morte di cui è stato testimone diretto il compagno, anche di stanza, Padovano. «Quel 18 novembre pranzammo come sempre al Motelagip e poi si andava a riposare in camera fino alle ore 16. Alle 15 suonò il telefono, Denis risponde… Non parla, ascolta e non dice nulla. Gli dico: Berga dai prendiamo la mia macchina per andare al cinema Garden? Ma lui non risponde, era completamente imbambolato dopo quella chiamata». L’ultima volta che Padovano vide Denis vivo fu al cinema Garden quando a un certo punto dalla galleria dove si era seduto si alzò ed uscì letteralmente di scena.
«Ad aspettarlo fuori c’erano “due sagome”», racconta Padovano a Trincia. Da quel momento calò il cono d’ombra che, da 36 anni a questa parte, non è stato del tutto illuminato. Due genitori, Domizio e Maria, sono morti senza neppure la consolazione di uno straccio di giustizia per quel figlio, uomo e calciatore esemplare, volato via che era ancora un ragazzo. Il fardello di questa assurda vicenda, in cui il calcio fa solo da sfondo, è rimasto per tutto questo tempo sulle spalle della sorella Donata. Nella sua casa ha costruito un archivio della memoria dedicato a quel fratello amatissimo per il quale pianse quando lasciò Boccaleone per scendere a Cosenza. Ma quelli erano ancora i giorni luminosi del successo e non i decenni bui della rabbia atroce della perdita a cui si è aggiunta la beffa di una verità taciuta. Una verità per la quale Donata si è battuta ogni santo giorno, sacrificando la sua vita. «Quando tornavo dal lavoro ogni sera mi mettevo qui a studiare le carte».
La lettura quotidiana di articoli di giornale, atti giudiziari e tutto ciò che parlasse di Denis. «L’ho fatto perché ho bisogno di essere sempre con lui», confessa Donata a Pablo Trincia. Un amore infinito di sorella, spezzato da un amore malato di una donna che non accettava di essere lasciata da Denis. Il delitto passionale è la verità emersa nell’ultimo processo con la condanna in primo grado a 16 anni di reclusione emessa nei confronti di Isabella Internò accusata di omicidio volontario premeditato in concorso con ignoti. «Nel cono d’ombra ci sono le tante cose non dette e che forse non verranno mai rivelate e che hanno continuato ad alimentare il mistero – conclude Trincia - . Però noi, nei momenti in cui avevamo dei dubbi abbiamo trovato sempre le risposte nel corpo di Denis. Il suo corpo parla e racconta la vera storia dell’omicidio. Ora la speranza è che qualcun altro parli e riveli i nomi degli altri responsabili perché Donata e la sua famiglia hanno il diritto di conoscere la verità».