martedì 15 settembre 2020
Una biografia di Anna Folli dedicata al grande critico e alla sua storia famigliare nella Torino del primo Novecento: il legame con la moglie Renata, gli inizi letterari, le difficoltà nell’ambiente
Giacomo Debenedetti con la moglie Renata

Giacomo Debenedetti con la moglie Renata - Archivio Giovannetti/Effigie

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Con questo libro appena uscito per Neri Pozza, La casa dalle finestre sempre accese (pagine 256, euro 18,00), dedicato al più grande critico letterario italiano del Novecento, e cioè Giacomo Debenedetti, ma anche alla moglie Renata Orengo e al loro rapporto d’amore, arrivato sugli scaffali dopo il fortunato MoranteMoravia (2018), Anna Folli si conferma felicemente specializzata in una sorta di variante moderna delle biografie parallele al modo di Plutarco, là dove un uomo e una donna di importante anagrafe culturale vengono reciprocamente illuminati dalle rifrazioni che, nello specchio d’una pagina insieme critica e narrativa, l’uno proietta sull’altra e viceversa, nel mentre si va ricostruendo un significativo capitolo di storia civile nazionale. Attorno a questa coppia, in effetti, ruota una parte di rilievo della società artistica del nostro Paese, dagli anni Venti almeno fino alla morte di Giacomo, avvenuta a Roma il 20 gennaio 1967. Anna Folli parte dal loro primo incontro «una sera d’inverno del 1919 al Teatro Regio di Torino», quando la bellissima Renata ha appena dodici anni e Giacomo quasi diciannove.

La Torino in cui Giacomo si forma è una città straordinariamente viva intellettualmente: intorno al precocissimo critico plurilaureato e in fama di genio, gravitano – oltre al maestro coetaneo Piero Gobetti, suo primo editore, e all’inseparabile Umberto Morra di Lavriano – Sergio Solmi, Carlo Levi, Mario Soldati, Natalino Sapegno, Giacomo Noventa. Tutti amici che resteranno carissimi, se si esclude quell’ombra che calerà densa su Sapegno, il compagno giovanile di escursioni alpinistiche, ma anche il futuro presidente di commissione del primo concorso universitario, in cui Giacomo verrà bocciato con la motivazione di un «indubbio allentamento, una certa involuzione dispersiva». Nel terzo tentativo concorsuale – per dire che si trattò di accanimento – a presiedere la commissione sarà invece Carlo Bo, ma il risultato sarà il medesimo: per chi volesse approfondire nei particolari, potrà consultare con profitto Il teatro della memoria (2001) di Paola Frandini. Ma torniamo a La casa dalle finestre sempre accese. Che si legge con grande gusto anche per la limpidezza della scrittura e per la disposizione affabulatoria: come un romanzo, si potrebbe aggiungere, se non si temesse di incoraggiare uno dei miti più perniciosi e risibili della nostra contemporaneità letteraria, ovvero quello della superiorità narrativa di questo genere letterario, ormai evidentemente agonizzante, su tutti gli altri. Un libro che ha momenti elusivi, i quali, però, finiscono per avere una forza di demistificazione critica tale che solo certi eloquenti silenzi sono in grado di raggiungere: si può essere chiari, in effetti, senza essere espliciti. Faccio un solo esempio, che ha a che fare con un altro momento difficile della vita di Debenedetti, quello in cui si cominciano a guastare i rapporti con l’editore Alberto Mondadori, col quale Giacomo ha fondato nel 1958 Il Saggiatore, diventandone direttore editoriale.

Si sta parlando di Cesare Garboli, nell’unica pagina del libro in cui è citato: «Attorno alla posizione privilegiata di Giacomo, da tempo sono nate molte gelosie e chi è sempre stato invidioso del suo ruolo inizia a sostenere che non è più all’altezza della situazione». Ed ecco l’implacabile stilettata: «Si fa sempre più invadente la presenza di Cesare Garboli, che vive tra Roma e Viareggio e diventa un ospite fisso dei fine settimana in Versilia». Che è come dire, di Garboli, uomo di fascino ipnotico, tantissime cose (e non certo edificanti), seppure tacendole: e che trovano purtroppo, in chi ha conosciuto di persona il grande critico–scrittore e lo ammirò, immediata e dolorosa conferma. Un libro foltissimo di informazioni e di giudizi, insomma: che il lettore potrà facilmente reperire anche con l’ausilio dell’utilissimo indice dei nomi. Quanto ho scritto sinora su questo libro non deve far pensare che la biografia parallela lasci esclusivamente in primo piano la letteratura. Giacomo è un uomo che già da ragazzo «conosce bene cosa sia il male di vivere», e che combatte entrando in una grande «sintonia coi suoi autori»: è dalle sue letture, infatti, che ricava i magnifici emblemi per esorcizzare la sua angoscia. Una guerra, la sua, che non lo esime da un grande senso di responsabilità anche familiare: assai belle mi paiono le pagine di Folli giuocate su questo spartito, come quella in cui ci viene restituito il grande critico, oltre una doppia porta «che lo separa dal resto della famiglia», in ansia e preoccupato «dall’idea di non riuscire a pagare i debiti».

E che dire dell’altra pagina in cui Giacomo consegna agli americani, nascosto nella legnaia, «un vero arsenale di guerra» (mitragliatrici, pistole e fucili portatigli nottetempo dai partigiani)? Meritandosi, per questo, un sonoro schiaffo di Renata, all’oscuro di tutto, che gli grida: «Questo è per i tuoi figli». Senza parlare dell’iscrizione improvvisa del critico al partito comunista, che suscita la riprovazione di tanti amici, «che hanno sempre pensato a lui come a un liberale »: tema che Anna Folli affronta in un capitolo delicato, tutto giuocato in persuasivi termini di psicocritica, molto felicemente intitolato “Un comunista immaginario”. E poteva mancare un’attenzione agli aspetti di mondanità letterari, ai salotti letterari romani di Alba dde Céspedes e Maria Bellonci, in cui i Debenedetti sono sempre e comunque dei protagonisti? Inutile dire, poi, del trauma irreversibile per l’ebreo Debenedetti che provoca, il 18 settembre 1938, la promulgazione delle leggi razziali. Se, a libro terminato, si dovesse trovare una formula che sintetizzi al meglio il senso di questa lunga, interminabile, storia d’amore, sarebbe difficile non concordare con quanto scrive il figlio Antonio nel suo bellissimo Giacomino (1994): il quale parlò dei suoi genitori nella Torino di Gobetti come di «una giovane coppia felice delle sue capricciose infelicità».

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