domenica 30 aprile 2017
Dal Folkstudio a "Sotto il vulcano", intervista all'autore di "Rimmel": «Mai scritto canzoni per salire in cattedra. La musica scava, ma è la vita a insegnare»
Francesco De Gregori (Daniele Barraco)

Francesco De Gregori (Daniele Barraco)

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Per la generazione della Leva calcistica del ’68, o giù di lì, Francesco De Gregori, classe 1951, è rimasto un faro sempre acceso a indicare «la strada / la vita lavorata / per il tempo ed il denaro / e la casa costruita...». Sulla strada lo incontriamo: più rilassato, la Gitanes accesa, come sempre e per sempre. Con l’uomo che per brevità si fa chiamare «artista», cominciamo con il riascoltare Rimmel, brano del 1975 che impazza in radio con l’arrangiamento che gli rifà il trucco da nuova hit. Come se non fossero trascorsi quarant’anni dalla prima incisione. Ed è anche il singolo di Sotto il vulcano, il doppio disco live (registrato al Teatro Antico di Taormina) in cui c’è dentro tutto l’artigianato e la poetica inimitabile di De Gregori che ringrazia e accetta l’applauso del pubblico pagante.

Un titolo, Sotto il vulcano che anche per chi non si è fatto mai “messaggero” politico vorrà comunque denunciare qualcosa di attuale...

«Al di là della citazione dell’omonimo romanzo di Malcolm Lowry, è semplicemente un titolo evocativo. Oggi, certo, è difficile non accettare l’idea che siamo tutti minacciati da una situazione internazionale spesso drammatica, complicata. La mia generazione ha vissuto un lungo periodo di pace apparente ma ora dobbiamo stare tutti attenti perché “sotto il vulcano” ogni giorno piovono sciagure».

Stiamo ancora navigando sul Titanic?

«Il Titanic resta metafora di un fallimento della modernità: la nave inaffondabile che va a picco al viaggio inaugurale come una barchetta di carta... L’evoluzione tecnologica genera la fiducia nel progresso, ma poi puntualmente la storia riserva secche smentite. Io da sempre con le canzoni racconto storie, ma detesto l’arte impegnata perché penso si impoverisca. In tanti anni non ho mai scritto niente con l’intento di far cambiare opinione a qualcuno».

Eppure il cantautorato figlio del ’68, a cui appartiene, imponeva delle logiche politiche ben precise.

«C’è stato un periodo in cui la musica subiva una lettura ideologica, ma questo valeva anche per la squadra di calcio di cui si era tifosi o la pastasciutta che si mangiava. Una terribile e a volte patetica forzatura. Io ho sempre dichiarato apertamente di essere di sinistra, evitando però di fare comizi dal palco: un uomo di spettacolo che arringa le folle genera inevitabilmente degli equivoci. Ritengo sia più giusto che un cantautore si dedichi esclusivamente alla sua musica».

La sua musica è cominciata in quella che forse è stata l’ultima nostra “ factory” cantautoriale: cosa è stata veramente la cantina del Folkstudio?

«Una sorta di festa mobile sei giorni su sette. Harold Bradley, Eddie Hawkins e The Folkstudio Singers erano gli animatori di un luogo in cui gli artisti di tutto il mondo, di passaggio a Roma, venivano ospitati e si esibivano, proponendo ogni sera un genere diverso. Il Folkstudio ha allargato gli orizzonti del pubblico romano e anche quello dei giovani cantautori di allora».

Si ricorda il suo debutto al Folkstudio?

«E come non potrei, avevo sedici anni... Ci saranno state quaranta persone, del resto a stare stretti e in piedi al Folkstudio ne entravano al massimo centocinquanta. Feci un canto popolare e la mia Buonanotte Nina che non ho mai inciso. Per un po’ io e Venditti riempimmo il cartellone della domenica pomeriggio».

Con Venditti nel 1972 registraste Theorius Campus...

«Un progetto che nacque dal giusto calcolo di Vincenzo Micocci, il nostro primo discografico alla It: per risparmiare ebbe l’idea geniale di fare un disco con due cantautori di belle speranze che erano, e sono tuttora, amici».

Nel 1979 dalla fusione Dalla-De Gregori nacque il leggendario tour (più disco) Banana Republic. Come mai con Venditti non si concretizzò un Theorius Campus live?

«Il disco funzionò ma aveva anche già detto e descritto tutto, compresi gli universi distanti a cui apparteniamo da sempre io e Antonello. Un tour magari sarebbe stato soddisfacente al botteghino, ma con Venditti mancava la giusta colla artistica che invece poi ho trovato con Lucio Dalla, ma anche nel tour che feci con Fiorella Mannoia, Pino Daniele e Ron».

Ha detto che il Dalla-De Gregori Work in Progress l’ha cambiata dentro....

«L’impatto oceanico e le motivazioni storiche hanno fatto di Banana Republic un incontro artistico unico e irripetibile, ma il secondo atto con Lucio non è andato male. Anzi, ci siamo ritrovati musicalmente più completi e per certi versi migliori di allora. Mancava il fascino e l’atmosfera del ’79, però con Work in Progress ho provato sulla mia pelle la leggerezza di Dalla. Osservandolo ogni sera, mi ha fatto capire che essere leggeri aiuta a stare meglio nella vita. Inconsciamente, da quel momento ho cominciato a vivere sul palco come Lucio, e di questo gli sarò sempre grato».

Sempre e per sempre, dalla Mannoia della cover sanremese a Fausto Leali, è diventato uno dei suoi brani più apprezzati.

«Tra noi ci sono un’amicizia e una stima che vanno oltre i mondi e le generazioni da cui proveniamo. L’ho chiamato due anni fa all’Arena di Verona per il 40° di Rimmel e abbiamo cantato il “mio” cavallo di battaglia, la sua A chi. Leali mi disse che nel suo nuovo disco voleva inserire La donna cannone, ma l’ho dissuaso: quella l’hanno fatta già in tanti, piuttosto registriamo Sempre e per sempre... Confrontarsi con i colleghi, scambiarsi le canzoni e vedere cosa ne viene fuori è ancora molto stimolante».

Scambi importanti sono stati anche quelli con due artiste originali come Caterina Bueno (morta nel 2007 e per cui scrisse Caterina) e la pasionaria Giovanna Marini.

«Un’estate accompagnai Caterina in tournée, ero il suo chitarrista nei concerti alle feste dell’Unità. La Bueno andava in giro con un registratore in mano a “intervistare” i vecchi nelle campagne: chiedeva di intonare quei canti che sono testimoni del patrimonio della nostra memoria popolare, che lei ha contribuito a salvare. Un lavoro di antropologia culturale preziosissimo che hanno fatto anche Portelli, Bosio e Giovanna Marini, con la quale abbiamo realizzato Il fischio del vapore ».

Album del 2002 che ha avuto un successo incredibile, specie presso il pubblico giovanile: come se lo spiega?

«Come una scommessa vinta. Nessuno poteva pensare che quel disco potesse arrivare a tutti. Il segreto è stato la mia idea di utilizzare gli strumenti della tradizione popolare trasportati sul palco con la musica della band. La magia poi, oltre alla bravura della Marini, deriva da canzoni come Bella ciao nella versione delle mondine, che hanno una drammaticità e un rimando agli aedi classici, a Omero: nessuno all’ascolto può restare indifferente».

Nonostante l’indifferenza “degregoriana” a Sanremo, poi si scopre che nel 1980 una sua canzone, Mariù cantata da Gianni Morandi, partecipò al Festival.

«Ma a mia insaputa... Non arrivo a dire che se l’avessi saputo non l’avrei scritta, però non fu certo pensata per gareggiare al Festival. Ogni anno mi chiedono di partecipare a Sanremo e io rispondo sempre di no, perché ritengo che sia un grosso evento televisivo più che una rassegna della canzone italiana. In tv preferisco fare altri passaggi».

Negli ultimi tempi infatti è passato anche da Amici della De Filippi. Ma la sua musica oltre alla tv affascina il cinema: Gabriele Salvatores l’ha inserita nelle colonne sonore dei suoi film, per Alessandro Haber ha scritto la bellissima La valigia dell’attoree ora Checco Zalone da fan è diventato suo amico...

«L’idea di fare un disco con Alessandro Haber, ottimo cantante, era di Mimmo Locasciulli che aveva trovato quel bellissimo titolo e mi perseguitava, voleva che scrivessi il testo. Io insistevo, Mimmo sai scriverle anche tu le canzoni, quindi falla... Poi un giorno l’ho buttata giù e l’ho data ad Haber che l’ha messa nell’album Haberrante: e devo dire che è un brano che gli sta bene addosso. Con Checco ci troviamo quando passa da Roma, ci divertiamo molto: è un grande comico, ma anche un uomo molto serio. Il nuovo Totò? No, lo vedo più affine a Charlie Chaplin o a Buster Keaton».

Si spegne l’ultima Gitanes, fine dell’ascolto dell’eterna Rimmel. Allora, il prossimo disco di inediti sarà pronto per il 2018?

«La speranza c’è. Procedo per brandelli, cenni di accordi e poi di solito tutto questo porta a un nuovo disco. Le canzoni un po’ si scrivono da sole... E scriverle aiuta ogni volta a scavare nelle cose e dentro se stessi, ma è solo la vita che insegna: ti fa capire chi sei e in quale direzione stai andando».

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